/ News / Approfondimenti / Interventi e commenti
La relazione di Paolo Pascucci, docente dell'Università di Urbino Carlo Bo, in occasione del Seminario Nazionale Avvocati Inail 2018
Innanzitutto un sincero ringraziamento all’Avvocatura Generale dell’INAIL per aver voluto coinvolgere nell’organizzazione scientifica del suo Seminario annuale l’Osservatorio “Olympus” dell’Università di Urbino Carlo Bo che ho l’onore di presiedere e che dal 2006, grazie al sostegno della Regione Marche e di INAIL Marche, monitora quotidianamente l’evoluzione legislativa e giurisprudenziale della sicurezza sul lavoro.
La mia relazione, dedicata al decennale del d.lgs. n. 81/2008, si articola in tre punti.
In primo luogo, una breve ricostruzione della genesi del d.lgs. n. 81/2008 e dei suoi principali obiettivi.
In secondo luogo, soffermerò l’attenzione su alcuni ritardi applicativi della disciplina legislativa e su certi elementi di quest’ultima su cui, alla luce dell’esperienza di questi dieci anni, appare indifferibile un intervento del legislatore che, senza stravolgere l’impianto e la filosofia regolativa del d.lgs. n. 81/2008, consenta di portare a più completa maturazione alcune intuizioni del suo originario disegno regolativo.
Infine, tenterò di evidenziare le possibili ricadute sul piano della speciale tutela della sicurezza sul lavoro di alcune riforme intervenute in questi dieci anni nel diritto del lavoro generale, il che evoca quella che appare una delle maggiori criticità del complesso processo di ri-regolazione dei rapporti di lavoro finalizzato a fronteggiare l’impatto sul versante occupazionale della pesantissima crisi economica internazionale: vale a dire la mancanza di sistematicità nei vari interventi di riforma.
In effetti, sarebbe imperdonabile dimenticare come il d.lgs. n. 81/2008 vide la luce proprio a ridosso dell’insorgenza di quella crisi finanziaria che tuttora affligge la nostra economia. E sarebbe ingiustificabile trascurare che l’applicazione del decreto si è andata dipanando in parallelo con gli effetti di quella crisi sui sistemi produttivi e sull’organizzazione del lavoro.
Celebrare un anniversario di una legge obbliga a ricordare i principali motivi della sua nascita.
Tra questi va annoverata, da un lato, la consapevolezza di come i pur importanti provvedimenti regolativi precedenti non fossero stati in grado di rimarginare la perdurante piaga infortunistica e di come un simile obiettivo non potesse prescindere dalla riorganizzazione e ricomposizione del quadro regolativo, eccessivamente frammentato e dispersivo. D’altro canto, l’esigenza di un testo unico in materia era stata preconizzata fin dalla riforma sanitaria emanata trent’anni prima: quella l. n. 833/1978 del cui quarantesimo anniversario quest’anno ben pochi si sono ricordati.
Da un altro lato, la necessità di una nuova disciplina complessiva della sicurezza sul lavoro si giustificava in considerazione dei profondi mutamenti dell’organizzazione produttiva e del mercato del lavoro emersi, sotto la spinta della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica, dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 626/1994.
Dieci anni fa, proprio in rappresentanza di “Olympus”, ebbi l’opportunità di partecipare ai lavori del tavolo tecnico inter-istituzionale che si cimentò nella stesura del Titolo I del d.lgs. n. 81/2008. Per uno strano paradosso, il turbolento clima politico dell’epoca che portò allo scioglimento anticipato della XV Legislatura non impedì di attuare la delega con cui la l. n. 123/2007 aveva conferito al Governo il compito di provvedere al riassetto ed alla riforma delle norme vigenti, mediante il loro riordino e coordinamento in un unico testo normativo.
Se per un verso può apparire paradossale che la litigiosa maggioranza che sosteneva il secondo Governo Prodi sia riuscita a realizzare quell’unificazione normativa invano ricercata per trent’anni, per altro verso non va dimenticato che a sospingere in porto il d.lgs. 81/2008 fu soprattutto il vento gravido di fumo che nella notte del 6 dicembre 2007 si levò dall’acciaieria torinese della ThyssenKrupp. Senza l’indignazione sollevata dall’assurdo sacrificio di sette operai morti carbonizzati per la scelta omicida dell’impresa di non investire più nelle elementari misure di sicurezza antincendio, probabilmente anche quella volta l’ansia di riforma si sarebbe arenata.
Ne sortì uno straordinario impegno di tutte le istituzioni – statali e regionali – che unirono le forze, come raramente accade, per attuare la delega, sotto la spinta politica determinante del Ministro del lavoro Cesare Damiano e del Coordinamento tecnico delle Regioni.
Uno sforzo comune da cui emerse una plastica immagine della realizzazione di quel principio di leale collaborazione che la nostra Corte costituzionale caldeggia quando su di una determinata disciplina insistono competenze legislative diverse.
Il decreto delegato approvato nella primavera del 2008 a Camere ormai sciolte prendeva il posto del d.lgs. n. 626/1994, mirando, seppur in una logica di continuità con i principi fondamentali di quest’ultimo, del resto ancorati alla direttiva quadro comunitaria n. 391/1989, a perseguire, fra l’altro, questi principali obiettivi:
Pur non essendo un vero e proprio “testo unico”, il d.lgs. n. 81/2008 ha tuttavia assorbito la maggior parte delle disposizioni vigenti in materia. Le altre speciali discipline ancora in vigore (per le attività a bordo delle navi, nei porti, nelle ferrovie) avrebbero dovuto essere oggetto di un coordinamento con il d.lgs. n. 81/2008, che tuttavia non c’è mai stato e del quale si avverte tuttora l’esigenza.
Sta di fatto che l’“unicità sostanziale” della disciplina contenuta nel d.lgs. n. 81/2008, per quanto attiene ai principi generali del sistema prevenzionistico, enfatizza l’esigenza di estendere i suoi principi anche là dove ancora vigono regole pregresse. Il che vale anche per quelle pubbliche amministrazioni per le quali il d.lgs. n. 81/2008 ha preconizzato una disciplina regolamentare di adeguamento in ragione di particolari esigenze connesse al servizio espletato o alle peculiarità organizzative. E a tale proposito balza agli occhi come in importanti realtà, come l’università, la disciplina applicabile emerga ancora da decreti ministeriali risalenti alla fine degli anni novanta adottati alla luce del d.lgs. n. 626/1994, i quali evidenziano la propria inadeguatezza rispetto alle innovazioni del d.lgs. n. 81/2008.
L’inesorabile scorrere del tempo acuisce la distanza tra quelle regole della fine del vecchio secolo e quelle apparse nel primo decennio del nuovo, le quali, pur se in una logica di continuità, hanno introdotto non poche innovazioni rispetto al d.lgs. n. 626/1994.
Ciò induce a chiedersi come possano conciliarsi i nuovi principi con regole vecchie di vent’anni emanate in un contesto che non ne poteva tener conto. Come si dovrebbe interpretare oggi una regola di un vecchio decreto ministeriale degli anni novanta che disciplini un obbligo legale sussistente allora come ora, ma oggi ampiamente ridisegnato nel nuovo contesto ordinamentale (si pensi alla valutazione dei rischi o alla formazione)? Esemplificando ulteriormente, ove uno di quei vecchi decreti prevedesse la delegabilità di certe funzioni, si potrebbe forse lontanamente ipotizzare che tali deleghe oggi possano essere conferite al di fuori della specifica cornice regolativa predisposta dall’art. 16 del d.lgs. n. 81/2008?
Un’altra delicata questione riguarda la realizzazione del sistema istituzionale. L’idea di creare un assetto politico-istituzionale in grado di governare e coordinare le politiche della prevenzione, partorita in un clima di leale collaborazione tra Stato e Regioni, si è poi dovuta misurare con vari aspetti critici, a cominciare dall’improvviso mutamento di quel clima in seguito alla emersione di una diversa maggioranza politica immediatamente dopo l’emanazione del d.lgs. n. 81/2008, per proseguire con le difficoltà incontrate dai vari attori istituzionali nel gestire adeguatamente i vari organismi istituiti dal d.lgs. n. 81/2008 e con alcune modifiche legislative.
Basterà qui ricordare l’improvvido “esilio” nel 2013 del Comitato di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 81/2008 (la cabina di regia del sistema con compiti di indirizzo e valutazione delle politiche attive e di coordinamento nazionale delle attività di vigilanza), nel “Comitato tecnico sanitario” del Ministero della salute: esilio terminato solo con il d.lgs. n. 151/2015.
O si pensi, in esito alle modifiche apportate dallo stesso d.lgs. n. 151/2015, al prolungato stallo dell’attività della Commissione consultiva permanente, il cui ruolo è fondamentale per l’applicazione in pratica della disciplina legislativa, come è già avvenuto con la definizione delle procedure standardizzate per la valutazione dei rischi, delle procedure per la valutazione dei rischi da stress lavoro correlato e delle indicazioni per l’adozione dei modelli di organizzazione e di gestione della sicurezza sul lavoro per le piccole imprese. Ed è auspicabile che, come prevede l’art. 30, comma 5, la Commissione consultiva attribuisca quanto prima anche alla nuova norma internazionale UNI ISO 45001 la presunzione di conformità ai requisiti della stessa norma.
Un’altra criticità riguarda l’endemica asimmetria di funzionamento ed operatività, a seconda dei diversi territori, dei Comitati regionali di coordinamento.
E tutt’altro che irrilevante si è rivelata la lunghissima attesa (otto anni) del regolamento necessario per la definizione delle regole tecniche per il funzionamento del Sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro (SINP), strumento strategico per l’organizzazione e la circolazione delle informazioni, delle linee guida e delle buone pratiche utili a favorire la promozione e la tutela della salute e sicurezza sul lavoro. Basti pensare, tra l’altro, all’importanza delle banche dati delle prescrizioni di cui al d.lgs. n. 758/1994 ai fini dell’effettiva applicazione di quella parte dell’art. 14 del d.lgs. n. 81/2008 che consente la sospensione dell’attività imprenditoriale a fronte di gravi e reiterate violazioni della disciplina prevenzionistica.
Quanto alla vigilanza pubblica, il d.lgs. n. 81/2008 ha tenuto conto assai più del criterio di delega del “coordinamento” che di quello della “razionalizzazione” delle attività di vigilanza, uscendone confermato un variegato sistema delle competenze.
Per altro verso, destano perplessità le riserve di competenza esclusiva che, in alcuni specifici settori, sono attribuite ad organismi di vigilanza di incerta indipendenza, con l’esclusione di qualsiasi ruolo delle ASL sebbene l’art. 13, comma 4, prevedendo che la vigilanza debba essere sempre esercitata nel rispetto del coordinamento di cui agli artt 5 e 7, indirettamente evochi la necessità almeno di un raccordo con gli organismi cui la legge assegna la competenza prioritaria a vigilare.
Infine, non va dimenticato il ritardo con cui è stato avviato il lavoro della Commissione per gli interpelli nonché la sospensione della sua attività dopo l’istituzione dell’Ispettorato nazionale del lavoro. L’attività di interpretazione di questa Commissione risulta fondamentale non solo per la complessità della disciplina prevenzionistica con cui deve confrontarsi, ma anche perché le risposte che essa fornisce ai quesiti di ordine generale possono rafforzare quell’uniformità degli indirizzi per l’attività di vigilanza di cui si avverte la necessità a fronte della pluralità degli organismi competenti a vigilare. E, considerando lo stretto raccordo di azione tra il personale ispettivo e la magistratura, sarebbe interessante verificare se e in che misura le risposte della Commissione per gli interpelli influenzino gli orientamenti giurisprudenziali.
Parimenti debbono essere apprezzate ed incoraggiate le attività di supporto e promozionali, svolte in particolare dall’Inail e specialmente l’incentivazione, in una logica premiale, dei comportamenti virtuosi delle imprese, come l’adozione dei modelli di organizzazione e di gestione della sicurezza.
Un altro aspetto che merita attenzione concerne l’ambito soggettivo di applicazione della tutela.
A tale proposito ci si deve chiedere se la portata innovativa e lungimirante della definizione universalistica di “lavoratore” accolta dal d.lgs. n. 81/2008 non rischi di essere in parte sminuita dalle specifiche declinazioni regolative relative ad alcune tipologie contrattuali, come la somministrazione, il lavoro parasubordinato o finanche il lavoro autonomo.
Senonché, al di là di alcuni opportuni aggiustamenti di certe regole – come ad esempio, nella somministrazione, una più razionale ripartizione degli obblighi prevenzionistici, specialmente quelli legati alla formazione – non è agevole applicare senza adattamenti ai lavoratori non standard la disciplina applicabile al lavoratore subordinato standard.
Il fatto è che, nel caso dei contratti di lavoro flessibile, tali adattamenti debbono riguardare non tanto la quantità di tutela applicabile, quanto la qualità della stessa, la quale deve necessariamente tenere conto della principale differenza tra tali contratti e quelli standard, consistente nella diversa contestualizzazione, negli uni e negli altri, del lavoratore nell’ambito dell’organizzazione aziendale.
Dunque, piuttosto che estendere ai lavoratori flessibili le tutele dei lavoratori stabili occorrerebbe prevedere specifiche misure di protezione in ragione della discontinuità e frammentazione dei cosiddetti nuovi lavori. D’altro canto, per questi ultimi, le norme comunitarie (come la direttiva n. 91/383/CEE) “richiedono la garanzia non delle stesse misure di sicurezza” previste per gli altri lavoratori, “bensì del raggiungimento dello stesso livello di protezione”, anche mediante una tutela “differenziale”.
Qualche ulteriore adattamento andrebbe apportato sia alla disciplina del lavoro occasionale, interessato dalla discutibile vicenda normativa dei voucher, sia alle equiparazioni al lavoratore, svincolando queste ultime da riferimenti a norme spesso obsolete e riconducendole sotto l’egida di concetti generali (es. tirocinanti, lavoratori socialmente utili).
Ma c’è un altro aspetto su cui occorre riflettere attentamente, vale a dire il rilievo, sempre più tralaticio, del luogo di lavoro ai fini dell’applicazione della disciplina di tutela della salute e sicurezza, di cui una evidente traccia si rinviene nella previsione dell’estensione di tale disciplina al lavoro parasubordinato solo a condizione che la prestazione sia resa nel luogo di lavoro del committente.
L’emersione dei nuovi lavori, sempre più sganciati dal rilievo di uno stabile luogo fisico, induce a valutare l’opportunità di modulare la tutela tenendo conto che sempre più spesso la prestazione viene eseguita in più luoghi non necessariamente deputati esclusivamente al lavoro o che assumono la dimensione di luogo di lavoro solo perché le modalità della prestazione consentono di svolgerla pressoché ovunque, a prescindere dal fatto che tali luoghi siano nati per accogliere lavoro.
Se l’informatizzazione e le nuove tecnologie permettono tutto ciò è allora evidente che può sfumare l’equazione “organizzazione-luogo di lavoro” e l’organizzazione nel cui ambito il lavoratore svolge la propria attività assume sempre più una dimensione/accezione non necessariamente reificata, dovendo essere intesa soprattutto come l’insieme delle regole mediante le quali si realizza il progetto produttivo del datore di lavoro o del committente, e non più soltanto come entità fisica corrispondente ad un luogo. Il che, a ben guardare, è quanto emerge nella c.d. gig economy, sol che si pensi a come l’organizzazione datoriale possa talora identificarsi con la piattaforma digitale e con le regole che la governano.
Di qui l’esigenza di pensare a regole di sicurezza capaci di “seguire” il lavoratore e non più tarate solo su di un luogo fisico determinato. Per dirla sinteticamente, la “sicurezza dei lavoratori” più che la “sicurezza nei luoghi di lavoro”.
Peraltro, le nuove modalità dell’organizzazione del lavoro evidenziano un’altra questione che non può essere più elusa.
La crescente competizione cui le imprese sono sottoposte nella dimensione dell’economia globale le espone sempre più di frequente alla necessità di disporre in modo flessibile di lavoratori capaci di rispondere immediatamente alle mutevoli esigenze produttive.
Ebbene, come si concilia questa esigenza con una effettiva tutela della sicurezza sul lavoro? In termini più espliciti, siamo davvero sicuri che il lavoratore a termine o somministrato possa essere immediatamente adibito – come richiede l’impresa – alla mansione richiesta in quanto sufficientemente ed adeguatamente formato in termini di sicurezza come richiede l’art. 37 del d.lgs. n. 81/2008? Non sarà che di fronte alle esigenze produttive just in time la sicurezza sul lavoro stia diventando un lusso, come qualcuno paventò qualche anno fa da un autorevole scranno ministeriale?
E non sarà che i compromessi con cui finora si è tentato di contemperare esigenze apparentemente inconciliabili – la immediata produttività e la sicurezza – come ad esempio la discutibile previsione contenuta in una fonte inter-istituzionale della possibile dilazione dei tempi per completare la formazione ove non sia possibile provvedere altrimenti rischino di svuotare di significato la lungimirante definizione di formazione accolta dal d.lgs. n. 81/2008 ed il precetto che ad essa è correlato?
Per evitare questo rischio, occorre prendere finalmente sul serio tanto la ripartizione dei compiti tra agenzia fornitrice ed utilizzatore nel caso della somministrazione, quanto, in senso più ampio, l’ipotesi di affidare la fase della formazione generale a momenti prodromici alla costituzione del rapporto di lavoro, concentrando l’attenzione dell’azienda sulla formazione specifica e sull’addestramento. Il che vale per tutti i settori, non dovendosi trascurare come la questione riguardi non solo per i lavoratori temporanei nel settore privato, ma anche quelli che operano nelle pubbliche amministrazioni, siano i supplenti delle scuole o il personale precario degli ospedali.
Per quanto attiene al sistema di prevenzione aziendale, le questioni della sicurezza sul lavoro costituiscono un aspetto decisivo della qualità delle imprese e della loro organizzazione.
Peraltro, se si pone in primo piano la qualificazione delle imprese, fra i requisiti minimi della stessa non può non emergere l’esigenza di una formazione anche del datore di lavoro in materia di salute e sicurezza: una formazione finora totalmente trascurata, fatte salve le ipotesi in cui lo stesso datore svolga i compiti di RSPP.
Per altro verso, un’impresa di qualità non può prescindere da un sistema di prevenzione organizzato e trasparente nel quale i ruoli dei vari attori siano chiari ed inequivoci secondo la logica di prevenzione partecipata che ispira la direttiva quadro europea del 1989.
Emerge così l’esigenza di distinguere il ruolo prettamente consulenziale del RSPP rispetto alle varie funzioni operative, precludendo una volta per tutte la delega di funzioni ex art. 16 al medesimo RSPP. La perdurante sovrapposizione di funzioni di staff e di line in capo a questo soggetto – del tutto inconcepibile in una logica di buona organizzazione, che non può non tenere rigorosamente distinti i ruoli di progettazione e di esecuzione del sistema prevenzionistico – rischia di consegnare un’immagine vetusta del sistema di prevenzione nel quale, a ben guardare, nella sostanza tende ancora ad emergere, seppur sotto una veste più raffinata, quella figura del “parafulmine” che contrasta con una moderna visione del sistema prevenzionistico.
Parimenti inconcepibile appare la limitazione del coinvolgimento del medico competente nella valutazione dei rischi solo ove sia obbligatoria la sorveglianza sanitaria (per la presenza delle c.d. attività “tabellate”) e quindi vi sia l’obbligo di nominarlo. Il che, beninteso, non significa che in qualunque impresa debba esservi sempre e comunque un medico competente, quanto piuttosto che la valutazione dei rischi non possa prescinderne, ferma restando la possibilità poi di non avvalersene ove la valutazione non evidenzi esigenze di sorveglianza sanitaria.
Per altro verso, il parallelismo tra qualità dell’organizzazione e sicurezza sul lavoro deve risaltare anche sul delicatissimo versante degli appalti. A prescindere dalla valutazione sui vari ritocchi – non sempre del tutto perspicui – che la disciplina dell’art. 26 del d.lgs. n. 81/2008 ha subito in questi anni, appare ormai indifferibile una riflessione sull’effettività dell’attuale disciplina specialmente in quelle ipotesi in cui, costituendo l’appalto una normale e stabile modalità di svolgimento del ciclo produttivo, la forza contrattuale dell’appaltante tenda a condizionare pesantemente la reale autonomia organizzativa ed il modus operandi degli appaltori e subappaltori. C’è infatti da chiedersi se in tali casi la responsabilità del datore di lavoro committente possa continuare a limitarsi – mediante la redazione del DUVRI – alla promozione della cooperazione e del coordinamento tra le varie imprese coinvolte, o se non presenti profili ulteriori connessi all’esercizio sostanziale di poteri che finiscono per travalicare i confini formali dell’impresa committente.
Un ulteriore aspetto che merita di essere considerato riguarda la valorizzazione dei modelli di organizzazione e di gestione della sicurezza di cui all’art. 30.
Già si è detto che, al di là dell’innegabile vantaggio connesso alla possibile efficacia esimente della responsabilità delle persone giuridiche di cui al d.lgs. n. 231/2001, l’adozione e l’efficace attuazione di tali modelli costituisce il metodo più idoneo per rispettare nel modo più adeguato i complessi precetti prevenzionistici previsti dalla legge. D’altro canto, non a caso il d.lgs. n. 81/2008 prevede che l’adozione e l’efficace attuazione di un MOG asseverata dagli OO.PP. possa essere presa in considerazione dagli organismi pubblici di vigilanza in sede di programmazione delle proprie attività.
Il fatto che i MOG siano utili anche al di là della loro efficacia esimente della responsabilità da reato degli enti dovrebbe indurre a valutare l’opportunità di incoraggiarne, anche sul piano legislativo, l’adozione e l’attuazione anche da parte delle pubbliche amministrazioni – escluse, com’è noto, dall’applicabilità del d.lgs. n. 231/2001 – per migliorare il proprio sistema prevenzionistico. Si pensi a come l’adozione e l’efficace attuazione dei MOG potrebbero risultare opportune in quelle strutture che, pur conservando la natura giuridica di pubbliche amministrazioni, operano secondo criteri ed assetti organizzativi prettamente manageriali, come le aziende sanitarie ed ospedaliere.
Poiché tuttavia l’incentivo per l’adozione dei MOG non può certo consistere nella estensione del campo di applicazione del d.lgs. n. 231/2001 alle pubbliche amministrazioni, potrebbe essere opportuno ipotizzare altre forme di agevolazione per le amministrazioni virtuose sul piano della sicurezza, come, ad esempio, eventuali deroghe ai non pochi vincoli imposti per legge (es. sospensione dei blocchi delle assunzioni; deroga al patto di stabilità; deroga ai limiti posti alla contrattazione integrativa).
Più in generale, al di là di qualche necessario maquillage dell’art. 30 per quanto concerne le sue presunzioni di conformità e non potendocisi purtroppo occupare in questa sede della delicata questione connessa alla fondatezza della ricomprensione di delitti colposi di evento – quali quelli di cui agli artt. 589 e 590 c.p. – nella trama regolativa del d.lgs. n. 231/2001 specialmente là dove evoca l’interesse e il vantaggio dell’ente, questione risolta dalla giurisprudenza di merito e di legittimità con un’interpretazione certamente ragionevole ancorché non del tutto cristallina alla luce del dato testuale del d.lgs. n. 231/2001, è tempo di chiedersi se l’adozione e l’efficace attuazione dei MOG, oltre a consentire l’esonero della responsabilità “amministrativa” degli enti, possa giovare al datore di lavoro anche per quanto concerne l’assolvimento dei suoi obblighi (individuali) prevenzionistici, costituendo un significativo parametro di adempimento dell’obbligo dui cui all’art. 2087 c.c.
Sarebbe dunque così azzardato ipotizzare che la logica oggi sottesa all’art. 16, comma 3, del d.lgs. n. 81/2008 – secondo cui l’obbligo di vigilanza del delegante sul delegato si presume assolto in caso di adozione ed efficace attuazione del sistema di controllo di cui all’art. 30, comma 4, del d.lgs. n. 81/2008 – possa domani estendersi anche a quella vigilanza del datore di lavoro sull’operato del lavoratore che la legge esige al fine di scongiurare la responsabilità datoriale in caso di infortunio causato dallo stesso lavoratore (art. 18, comma 3-bis)?
È tuttavia evidente che la valorizzazione dell’importanza dei modelli di organizzazione e di gestione postula la parallela valorizzazione degli strumenti che il d.lgs. n. 81/2008 ha messo in campo per renderli credibili ed efficienti. Il riferimento è soprattutto al sistema della pariteticità – quella genuina, ovviamente – cui sono affidati importanti compiti di supporto alle imprese tra cui anche l’asseverazione della adozione ed efficace attuazione dei predetti modelli. Uno strumento per certi versi ancora da esplorare, ma che presenta l’originale caratteristica di fornire sostegno al sistema di prevenzione aziendale facendo leva su quella dimensione partecipata della prevenzione inaugurata dalla direttiva quadro n. 89/391/CEE. Una partecipazione evidente non solo nella composizione paritetica delle commissioni tecnicamente competenti di cui gli organismi paritetici si avvalgono per rilasciare l’asseverazione, ma che deve emergere fin dal momento in cui l’azienda decide di richiedere l’asseverazione, giacché tale decisione non può non essere il frutto di un confronto e di una condivisione con i RLS, così valorizzandosi vieppiù il ruolo talora troppo sottovalutato di tali rappresentanti: il che potrebbe anche travalicare la dimensione di una mera consultazione giacché la salute e la sicurezza dei lavoratori costituiscono non solo diritti fondamentali di questi ultimi, ma “beni comuni”.
Le ultime brevissime considerazioni riguardano alcune ricadute sulla sicurezza sul lavoro di alcune recenti riforme del diritto del lavoro.
La prima considerazione ha a che fare con un altro d.lgs. n. 81 – quello del 2015, attuativo della delega del Jobs Act – il quale, come è noto, ha soppresso il contratto di lavoro a progetto ed ha ricondotto nella disciplina del lavoro subordinato le collaborazioni che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.
Orbene, se la riconduzione delle collaborazioni etero-organizzate nella disciplina del lavoro subordinato garantisce a tali rapporti una tutela prevenzionistica piena, ci si dovrebbe tuttavia chiedere se ciò si realizzerà effettivamente o se invece la rigidità della previsione del 2015 non alimenti più o meno direttamente una fuga verso altre forme negoziali sostanzialmente prive di tutela prevenzionistica o al più dotate di una tutela minimale, come ad esempio le partite IVA.
La seconda considerazione riguarda ancora il d.lgs. n. 81/2015 là dove ha modificato l’art. 2103 c.c. in tema di mansioni. Come è noto, il nuovo testo della norma codicistica prevede, fra l’altro, che, in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incida sulla posizione del lavoratore, lo stesso possa essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale e che il mutamento di mansioni sia accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell'obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell'atto di assegnazione delle nuove mansioni.
Ebbene, pare evidente come questa previsione sull’obbligo formativo e sulla irrilevanza della sua violazione ai fini della validità dell’atto datoriale non possa riguardare anche la formazione per la sicurezza di cui all’art. 37 del d.lgs. n. 81/2008, dal momento che il comma 4 di questo articolo prevede che la formazione per la sicurezza debba avvenire anche in occasione del cambiamento di mansioni.
L’ultima considerazione concerne l’effettività della tutela prevenzionistica a fronte delle nuove regole dei due principali contratti di lavoro subordinato: quello a tempo determinato (contemplato sempre nel d.lgs. n. 81/2015) e quello a tempo indeterminato a tutele crescenti di cui al d.lgs. n. 23/2015.
Per quanto riguarda i contratti a termine, l’effettività della tutela della sicurezza sul lavoro deve pur sempre fare i conti con l’ontologica maggior debolezza contrattuale del lavoratore. Il che, a ben guardare, vale anche nonostante le limitazioni con cui il recente “decreto dignità” ha cercato di arginare l’ampia liberalizzazione di tali contratti scaturita dalla soppressione nel 2014/2015 delle causali giustificative. Limitazioni che, per come sono congegnate, da un lato, più che ridurre il numero complessivo dei contratti a termine, potrebbero semmai moltiplicare il numero dei lavoratori utilizzabili con tali contratti, e che, da un altro lato, potrebbero paradossalmente rendere il lavoratore ancor più “malleabile” – e quindi più disponibile ad esporsi a rischi – per convincere il datore di lavoro a rinnovare un contratto che, dopo i primi 12 mesi, postula la necessità di causali non facili da dimostrare e potenzialmente generatrici di contenzioso.
Per altro verso, i rischi di scarsa effettività della tutela della sicurezza sul lavoro potrebbero emergere anche nel caso del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Si pensi all’ipotesi in cui, adducendo un presunto giustificato motivo oggettivo, il datore di lavoro licenzi un lavoratore che legittimamente non abbia accettato di svolgere la propria prestazione in condizioni di insicurezza. Un licenziamento intrinsecamente ritorsivo che, prima della riforma del 2015, secondo l’orientamento giurisprudenziale dominante sarebbe caduto sotto la mannaia della nullità – o in quanto equiparato al licenziamento discriminatorio o in quanto viziato da motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c. – con la conseguente applicazione della tutela reale piena di cui all’art. 18 Stat. lav.: conseguenza ancora valida per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, assoggettati al regime dell’art. 18 Stat. lav. come riformato dalla legge Fornero (l. n. 92/2012).
Ebbene, ove quel licenziamento per ritorsione riguardi un lavoratore assunto dopo tale data a tempo indeterminato con contratto a tutele crescenti, l’applicazione della tutela reale piena parrebbe invece pressoché impossibile dal momento che l’art. 2, comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 23/2015 prevede tale tutela – oltre che per il licenziamento discriminatorio – solo nel caso di licenziamento nullo perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge.
Una nullità del licenziamento che, a ben guardare, il d.lgs. n. 81/2008 non contempla espressamente, a meno di non ritenere che tale ipotesi sia assimilabile a quelle – di ben diverso tenore letterale – in cui lo stesso d.lgs. n. 81/2008 stabilisce l’impossibilità che certi soggetti subiscano pregiudizio a causa di un determinato comportamento connesso alla tutela della sicurezza sul lavoro: ciò vale per i responsabili e gli addetti del SPP (art. 31, comma 2), per i lavoratori che, in caso di pericolo grave, immediato ed inevitabile, si allontanino dal posto di lavoro o da una zona pericolosa (art. 44, comma 1), per i lavoratori che, in caso di pericolo grave e immediato e nell’impossibilità di contattare il competente superiore gerarchico, prendano misure per evitare le conseguenze di tale pericolo (art. 44, comma 2), e ovviamente per i RLS per lo svolgimento della propria attività (art. 50, comma 2).
Se questa assimilazione è certamente fondata nel caso del RLS in quanto lo stesso art. 50 prevede che nei suoi confronti si applicano le stesse tutele previste dalla legge per le rappresentanze sindacali, permangono dubbi per le altre ipotesi. E se l’art. 44, comma 1, prevede che i lavoratori, oltre a non poter subire pregiudizio, debbono essere protetti da qualsiasi conseguenza dannosa, non è detto che tale protezione sia necessariamente quella consistente nella tutela reale.
Pertanto, se non si vuole accedere alla conseguenza tanto paradossale quanto costituzionalmente discutibile, secondo cui nel caso prospettato, accertata la mancanza del giustificato motivo oggettivo, si applicherebbe la sola tutela indennitaria (sui cui criteri di commisurazione si sono recentemente appuntate le giuste censure della Corte costituzionale), appare più che plausibile la proposta ricostruttiva secondo cui il licenziamento ritorsivo per ragioni di sicurezza rientri pur sempre tra le ipotesi di licenziamento nullo secondo la disciplina generale codicistica di cui all’art. 1418 c.c. (contrarietà a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente; mancanza di uno dei requisiti ex art. 1325 c.c.; illiceità della causa; illiceità dei motivi ex art. 1345 c.c.; mancanza nell'oggetto dei requisiti ex art. 1346 c.c.) alle quali (anche se non si applica la tutela reale speciale ex art. 2 del d.lgs. n. 23/2015, sebbene certa giurisprudenza di merito sia di diverso avviso) si deve comunque applicare la tutela reale di diritto comune, con conseguente inefficacia dell’atto di recesso e ripristino della situazione ad esso precedente.
È evidente che, in un momento come questo, in cui il diritto del lavoro sta subendo profonde trasformazioni, al punto che qualcuno sta addirittura ipotizzando che stia mutando lo stesso paradigma su cui esso si è sempre fondato, il ruolo della sicurezza sul lavoro diviene un vero e proprio caposaldo, un baluardo, una sorta di ultimo avanposto, a protezione dei diritti fondamentali del lavoratore o, meglio, della persona che lavora. E, come si è appena visto, la sicurezza sul lavoro deve essere comunque garantita nonostante i mutamenti delle altre tutele.
Sarebbe tuttavia miope e per certi versi antistorico ritenere che il diritto della sicurezza sul lavoro costituisca l’“ultimo giapponese della jungla”, ovvero l’estremo epigono di un modello di tutela tradizionale. Viceversa, non si deve trascurare che, fin dalla direttiva madre europea n. 391 del 1989, il diritto della sicurezza sul lavoro si atteggia come un modello di regolazione partecipata più che conflittuale.
A riprova di ciò basti citare la configurazione della rappresentanza dei lavoratori per la sicurezza che, travalicando la dimensione tendenzialmente conflittuale un tempo percepibile nell’art. 9 Stat. lav., si sta sempre più orientando verso il piano partecipativo. Per non dire del ruolo sempre più centrale assegnato agli organismi paritetici ed alle loro funzioni. Né dovrebbero trascurarsi tutte le norme, anche esterne al d.lgs. n. 81/2008, che, valorizzando e tutelando la dimensione del “benessere organizzativo” specialmente nelle pubbliche amministrazioni, tendono a rimarcare le “convergenze” tra gli interessi dell’azienda/amministrazione e dei lavoratori, al di là delle loro evidenti e perduranti differenze.
Si tratta di segnali che confermano come, in uno scenario profondamente mutato, per prefigurare nuovi e credibili standard di tutela occorrono probabilmente innovazioni anche per quanto concerne i metodi della regolazione. E, sotto questo profilo, la sicurezza sul lavoro può fornire un importante contributo.
AiFOS - Associazione Italiana Formatori ed Operatori della Sicurezza sul Lavoro
25123 Brescia, c/o CSMT Università degli Studi di Brescia - Via Branze, 45
Tel 030.6595031 - Fax 030.6595040 | C.F. 97341160154 - P. Iva 03042120984
Privacy - Cookies Policy - Gestione segnalazioni-whistleblowing
Il sito utilizza cookie tecnici, ci preme tuttavia informarti che, dietro tuo esplicito consenso espresso attraverso cliccando sul pulsante "Accetto", potranno essere installati cookie analitici o cookie collegati a plugin di terze parti che potrebbero essere attivi sul sito.