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Le riflessioni di Rocco Vitale, Presidente AiFOS, a margine della recente sentenza
Quello che è successo nella notte tra il 5 ed il 6 dicembre del 2007, nella fabbrica tedesca della Thyssen di Torino, rappresenta una delle pagine nere della mancata prevenzione sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Sette lavoratori morti bruciati dopo lunghe agonie con ustioni sul 95 per cento del corpo. Le indagini della Procura di Torino furono immediate e veloci utilizzando metodi di perquisizioni e sequestri: modalità fino allora mai adottate nelle indagini relative agli incidenti sul lavoro. La linea seguita fu chiara fin dall’inizio individuando nel vertice aziendale e nei dirigenti dello stabilimento i soggetti che avevano omesso l’applicazione della legge.
Dopo tre mesi l’inchiesta venne chiusa, portando alla luce che quei lavoratori erano morti in una fabbrica che stava chiudendo. Per la proprietà non valeva la pena investire dei soldi in quello stabilimento che si stava smantellando: però vi lavoravano ancora un centinaio di lavoratori destinati alla produzione di acciaio. In una fabbrica con condizioni di crescente abbandono e totale insicurezza (basti ricordare una fotografia emblematica con decine e decine di estintori accatastati ed abbandonati in un angolo dello stabilimento).
Il primo processo, dopo 4 anni dall’incidente, si svolse nel 2011 e l’amministratore delegato della ThyssenKrupp in Italia, Harald Espenhahn fu condannato a 16 anni di reclusione in quanto il Tribunale accolse la tesi dell’omicidio volontario con dolo eventuale. In sintesi il dirigente era consapevole della possibilità che potessero accadere gravi incidenti. Naturalmente non poteva prevedere che si sarebbe verificato un incendio di tali dimensioni, ma era l’enunciazione di quello che giuridicamente viene definito il “dolo eventuale”.
Nel processo di appello del 2013 la Corte di Assise cancellò la natura dei reati contestati, riducendo l’entità della condanna e riconducendo la questione nella fattispecie dell’omicidio colposo con esclusione del dolo eventuale che, portato alla ribalta nazionale dai media, iniziava a far breccia nella giurisprudenza delle morti sul lavoro. L’anno successivo, nel 2014, La Corte di Cassazione rimandò il processo alla Corte di Torino per il solo ricalcolo delle pene.
Un nuovo processo si celebrò nel 2015 che stabilì le condanne che la IV sezione penale della Cassazione ha confermato nella seduta del 13 maggio scorso: 9 anni e 8 mesi all’amministratore tedesco in quanto datore di lavoro, 7 anni e 6 mesi a un membro del comitato esecutivo dell’azienda responsabile degli investimenti antincendio, 7 anni e 2 mesi all’ex direttore dello stabilimento di Torino, 6 anni e 8 mesi al Responsabile del Servizio di Prevenzione e di Protezione dello stabilimento torinese, 6 anni e 3 mesi per altri due dirigenti aziendali (responsabile commerciale e responsabile amministrativo del datore di lavoro).
Una sentenza non si commenta ma si esegue, e le porte del carcere si sono aperte per gli imputati italiani. La condanna non è mai una vittoria o una festa. Una sentenza che deve essere speranza per i lavoratori nella giustizia e deve far riflettere gli imprenditori sul valore della sicurezza che non deve essere disgiunto dal lavoro e dalla produzione. Le persone che hanno sbagliato devono pagare. Le norme di prevenzione in materia di salute e sicurezza devono essere applicate per evitare questo tipo di processi.
Il 2007 fu un anno orribile di avvenimenti e di indignazione per i gravi casi che hanno visto un’impennata delle morti sul lavoro. Ricordiamo come l’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel suo messaggio di fine anno, rese omaggio con parole toccanti alle morti bianche ed offerse la sua solidarietà ai familiari delle vittime del lavoro. In quella circostanza il Capo dello Stato pronunciò parole che sarebbero diventate delle costanti negli anni a venire: «Quando si verificano assurde e atroci tragedie come quella dei lavoratori periti nel rogo della Thyssen di Torino, e in angosciosa sequenza dei lavoratori di Marghera e infine, non meno dolorosamente e assurdamente di Molfetta, allora si leva ancor più fortemente il grido “Basta!”. Non si può continuare così, non ci si può rassegnare come a una inevitabile fatalità, dobbiamo tutti rimboccarci le maniche e impegnarci concretamente a fondo: tutte le forze sociali, tutte le componenti del mondo della produzione e del lavoro, tutte le istituzioni, specie nelle regioni del Sud dove maggiori sono le criticità e le carenze». «Non dobbiamo mai far mancare ai superstiti – proseguì – un valido sostegno materiale. È inaccettabile che allo strazio per la perdita di una persona cara si sommino difficoltà e disagi economici ulteriori».
Una sollecitazione che Napolitano fece pesare sul Parlamento che, inchiodato da discussioni interminabili e lungaggini, non legiferava sulla sicurezza sul lavoro e che portò il 9 aprile del 2008 (in soli quattro mesi) all’approvazione del noto Decreto Legislativo n. 81 che venne pubblicato il 30 aprile, proprio alla vigilia della Festa dei Lavoratori.
Oggi, quasi nove anni dopo quel tragico rogo, il ricordo e la memoria dei morti della linea 5 dell’acciaieria torinese rivivono nel Testo Unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.
AiFOS - Associazione Italiana Formatori ed Operatori della Sicurezza sul Lavoro
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