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Non c’è mai stata una definizione comunemente riconosciuta del termine “rischio”: la ragione è che il rischio non è un concetto autoesplicativo che “esiste” per virtù propria
«Non c’è mai stata una definizione comunemente riconosciuta del termine “rischio”: la ragione è che il rischio non è un concetto autoesplicativo che “esiste” per virtù propria. Si tratta di un termine aperto all’interpretazione e chi utilizza questo concetto tende a definirne il contenuto in relazione a un dato contesto». Potrebbe essere questo l’incipit per inquadrare la tematica affrontata dal libro Rischio e comunicazione. Teorie, modelli, problemi (Egea). A scriverlo è Andrea Cerase, autore di numerose pubblicazioni nel campo della comunicazione.
Il testo parte da una riflessione sulle ragioni storiche che hanno fatto del rischio una dimensione centrale della modernità, e analizza i principali paradigmi teorici e le implicazioni pratiche dei diversi approcci. In particolare, uno dei temi chiave del volume è che l’adozione di una differente prospettiva teorica implichi non solo la definizione strategica di obiettivi, strumenti e possibilità, ma anche una particolare idea dell’uomo, della società e della natura. “La comunicazione del rischio dovrebbe essere intesa non come un mero insieme di pratiche in cerca di una teoria, ma come strumento strategico della Risk Governance, che richiede conoscenze specialistiche, formazione continua e consapevolezza situazionale”, spiega Cerase nel libro.
Il libro, strutturato in sei capitoli, analizza non solo le principali teorie che trattano il rischio nell'ambito delle scienze sociali e comportamentali, ma dedica un’apposita sezione ad inquadrare l’importanza della comunicazione del rischio e quanto l’adozione di una prospettiva teorica più ampia sul rapporto tra rischio e comunicazione possa essere un valido strumento di supporto per affrontare la tematica.
Per saperne di più abbiamo parlato con l’autore, chiedendogli in prima battuta, quale ritiene sia la miglior definizione per inquadrare il concetto di rischio:
Il volume nasce proprio per dare una risposta a questa domanda. Ma la risposta è quanto mai aperta perché, come segnala anche Alberto Alemanno nella prefazione del volume, non esiste alcun concetto di rischio universalmente condiviso, e questo tende a rendere oggettivamente difficile la comunicazione e la comprensione tra esperti, scienziati, decisori politici e cittadini: in mancanza di un lessico comune e di categorie condivise, gli attori tendono a fare riferimento a concezioni del rischio diverse e talvolta incompatibili tra loro. Questo lavoro, partendo dall’analisi dei motivi che hanno conferito al rischio un’inedita centralità culturale e politica, considera il contributo delle diverse teorie alla comprensione dei diversi ambiti, concentrandosi in particolare sul rapporto tra la comunicazione e le diverse forme di conoscenza che consentono di riconoscere e agire nei confronti del rischio e i modi attraverso cui esse strutturano il discorso pubblico anticipando l’azione sociale.
In che modo il testo può essere elemento d’ausilio nella formazione?
In primo luogo perché consente di riflettere sulle nostre conoscenze relative a cosa viene inteso come rischio. Molto spesso, infatti, pensando al rischio i decisori (intendendo sia le istituzioni che le persone) danno per scontati tutta una serie di elementi che, invece, non lo sono affatto. Teorie e ricerche possono aiutare a capire meglio e, soprattutto ad impostare le policy più idonee per capire meglio cosa si sta facendo quando si parla di rischio. Il testo aiuta a valutare questo scenario: attingendo ad una letteratura consolidata, si propone di fornire chiavi di lettura che possano aiutare a delimitare i confini concettuali e i campi di applicazione propri del concetto di rischio. Direi che il proposito è di offrire qualche punto fermo che possa rendere più chiara e leggibile l’evoluzione storica e le implicazioni di queste riflessioni sul modo in cui la società, la scienza e la politica osservano, controllano e gestiscono i rischi. E in questo senso, il complesso rapporto tra teoria e comunicazione del rischio non è altro che uno dei possibili modi di articolare la dialettica tra la teoria e la pratica, tra i problemi e le soluzioni, tra le istituzioni e i cittadini.
Di rischio si parla anche nell’ambito della salute e sicurezza sul lavoro…
Sovente, in mancanza di una riflessione organica, si tende a pensare che il mondo fisico e sociale siano completamente prevedibili e assoggettabili alla volontà razionale; tale presupposto appare privo di fondamento e si traduce nell’idea che, ove vi sia incertezza, competa al decisore pubblico - o, nello specifico, al datore di lavoro - azzerare ogni possibile conseguenza indesiderata. Ma questo ragionamento appare del tutto inadeguato perché dilata enormemente il campo della previsione e della decisione, finendo per includere eventi casuali o imprevedibili, che sfuggono all’idea di controllo totale dell’ambiente che spesso si associa al paradigma dell’attore razionale.
Esempi quali punture di api che causano shock anafilattici su lavoratori o fulmini che li colpiscono sono eventi imponderabili che si collocano al di là della sfera della decisione umana: fondamentale da questo punto di vista la distinzione di Luhmann tra pericolo e rischio, laddove il pericolo è una conseguenza dell’incertezza contingente dell’ambiente, mentre il rischio si produce sempre ed esclusivamente come esito della decisione dell’uomo.
Confondere questi due piani – che vanno tenuti ben distinti - trae in inganno e induce all’errore. Il tentativo di azzerare l’irriducibile incertezza dell’ambiente si traduce in una spinta a prendere decisioni che, pur sembrando efficaci per risolvere uno specifico problema, rischiano di crearne altri. Se, ad esempio, per garantire la sicurezza da api e vespe si imponesse ai lavoratori di indossare delle tute da apicoltori si creerebbero immediatamente altri rischi, legati alla limitazione dei movimenti o al caldo dovuto al particolare indumento.
Di fatto, ciò dimostra che ogni decisione per mitigare il rischio ha un contenuto politico e non tecnico (come peraltro ben chiarito anche dal “principio di precauzione”) e che nessuna decisione può essere risolutiva per azzerare i rischi.
Il libro non fornisce soluzioni ma suggerisce un modo di operare. Cosa si può fare allora?
Ritengo sempre più necessario non solo l’aggiornamento continuo di saperi e pratiche, ma anche un utilizzo più consapevole di modelli decisionali e previsionali. Ogni decisione sui rischi quasi per definizione ci costringe, infatti, a fare i conti con i limiti della nostra conoscenza. Ad esempio, l’esplosione in volo dello Shuttle “Challenger” fu causata dal deterioramento di una guarnizione di gomma da 10 centesimi di dollaro. Nonostante, l’accurata pianificazione organizzativa, i rigidissimi protocolli ingegneristici adottati dalla NASA e i numerosi controlli sui singoli pezzi, qualcosa andò comunque storto: le catastrofi, secondo Perrow, sono quasi sempre il risultato di un insieme di errori, avarie e malfunzionamenti che avvengono simultaneamente e che, in ultima analisi, non vanno imputate alle tecnologie ma alle organizzazioni, che tutto sono tranne che infallibili. La stessa tragedia dell’uragano Kathrina a New Orleans è dipesa in modo significativo da un eccesso di confidenza nella pretesa esattezza delle valutazioni scientifiche. Pur disponendo di modelli previsionali abbastanza sofisticati sull’evoluzione dei fenomeni meteorologici, una valutazione troppo ottimistica sull’altezza dell’onda di piena che la tempesta stava facendo risalire lungo il Mississippi, si è tradotta in un grave errore di valutazione.
È per questi motivi che leggere e studiare diventa fondamentale per comprendere meglio la natura sistemica del rischio, e agire in modo più consapevole.
Nel tuo libro dedichi una parte rilevante alla comunicazione del rischio. Nel nostro Paese se ne parla poco…
È uno dei paradossi più stridenti su cui mi sono trovato a riflettere. Come tutti sanno, l’Italia è tragicamente esposta a rischi naturali, tecnologici, alimentari e sanitari, che richiederebbero particolari competenze nell’ambito della comunicazione. Tuttavia, il numero delle pubblicazioni e degli studiosi impegnato su questi temi, il numero di centri di ricerca specializzati e i progetti di collaborazione tra istituzioni scientifiche, autorità e governi raccontano di un grave ritardo del nostro Paese, come esplicitamente riconosciuto anche dal Parlamento che ha recentemente approvato una legge delega per il riordino della Protezione Civile e che avrà certamente importanti ricadute anche su altri ambiti. Il fatto che si parli poco di comunicazione del rischio è certamente una conseguenza di questo stato di cose. Con il mio libro ho cercato di rilanciare questo dibattito, proponendo un’idea forte: così come non esiste una definizione condivisa di rischio, non esiste alcun modello di comunicazione del rischio che possa definirsi valido ed efficace in assoluto. Il modo in cui la comunicazione del rischio viene concretamente praticata si lega alle definizioni di rischio utilizzate: nel volume si evidenzia come ogni approccio teorico corrisponda ad una particolare logica comunicativa, ovvero a precise assunzioni sui modelli e sugli stili di comunicazione che possono / devono essere adottate, e che implicano determinate concezioni sul ruolo di emittenti e riceventi, sui canali da usare, sulla direzione dei messaggi, sulla dinamica di diffusione e sui possibili effetti in termini di capacità di affrontare i rischi. Di fatto, i modelli ‘verticali’ nei quali il decisore impone le proprie scelte utilizzando un modello unidirezionale, verticale e gerarchico non sono l’unica possibilità. Ogni capitolo esplora come gli sviluppi della ricerca abbiano aiutato a capire molti aspetti del processo comunicativo, producendo modelli sempre più complessi ed efficaci. Ad esempio, la psicologia della percezione ha consentito di fare luce sulle disposizioni affettive e cognitive che influenzano le interpretazioni dei rischi da parte dei singoli. Altre teorie hanno invece evidenziato il legame strettissimo tra le culture del rischio e le reazioni a particolari forme di comunicazione, e altre ancora valutano la possibile amplificazione dei rischi come effetto degli stessi processi di comunicazione, fornendo un’eccellente base teorica per comprendere anche il ruolo e l’impatto dei social media nel modellare la risposta sociale al rischio.
Ci sono buone pratiche per una corretta comunicazione?
Certamente si: nel libro sottolineo come le “buone pratiche” nella comunicazione del rischio debbano fondarsi su conoscenze scientificamente fondate e prassi sostenibili. Nell’ultimo capitolo del libro propongo un modello per implementare le conoscenze nella comunicazione del rischio, che mette in fila teoria, dati di ricerca, esperienza pratica e valutazione dei risultati ottenuti. Si tratta di un modello di apprendimento continuo, che valorizza sia la conoscenza teorica che l’esperienza e che propone un continuo processo di revisione e miglioramento di ciò che viene fatto. L’idea è che il miglioramento delle cosiddette buone pratiche non si possa lasciare al caso, ma debba diventare uno stile e un’abitudine delle organizzazioni. Ad esempio, l’USGS, ente statunitense che si occupa di rischi geologici (vulcani, frane, terremoti) ha pubblicato un manuale di comunicazione dal titolo “Get your science used”, con lo scopo di aiutare scienziati, funzionari e decisori politici a comunicare meglio gli aspetti scientifici del proprio lavoro, migliorando la comprensione delle popolazioni esposte e facilitando il loro coinvolgimento nelle decisioni che le riguardano direttamente.
Si tratta di esperienze che hanno una lunga storia non solo negli Stati Uniti, ma anche in Gran Bretagna, Nuova Zelanda e nei paesi del Nord Europa e che hanno prodotto una mole incredibile di conoscenze che merita di essere studiata e divulgata anche in Italia.
Per acquistare il volume:
http://www.egeaonline.it/ita/prodotti/saggistica-varia/rischio-e-comunicazione.aspx
AiFOS - Associazione Italiana Formatori ed Operatori della Sicurezza sul Lavoro
25123 Brescia, c/o CSMT Università degli Studi di Brescia - Via Branze, 45
Tel 030.6595031 - Fax 030.6595040 | C.F. 97341160154 - P. Iva 03042120984
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