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Come evolverà il lavoro del formatore? Le riflessioni di Sonia Colombo
Sonia Colombo è psicologa del lavoro, psicoterapeuta ad indirizzo psicodinamico e psicosomatico, terapeuta EMDR, opera in regime di libera professione presso il proprio studio privato e come formatrice aziendale in differenti realtà, specie in ambito socio-sanitario. È referente per l’Istituto ANEB dei rapporti con l’Ordine degli Psicologi della Lombardia.
Mi accingo a scrivere questo articolo seduta al sole, su di un piccolo fazzoletto di terra che ho la fortuna di possedere proprio fuori casa, in un’area della campagna bergamasca che già ad un primo colpo d’occhio evoca il ricordo delle zone “della bassa”, così ben rappresentate nel capolavoro “L’albero degli zoccoli” di Olmi, da poco passato in tv in omaggio a una fra le città più colpite dalla Covid-19.
Giungono all’orecchio i canti degli uccelli, il tubare dei piccioni, il rumore dell’erba mossa dal vento che attende pazientemente di essere tagliata. Da quando il cosiddetto periodo di isolamento ha visto molti di noi tornare a vivere, oltre che ad abitare le proprie case, questi suoni sono divenuti per me fonte di calma ma ancor più di vita, che sembra contrapporsi al suono delle sirene delle ambulanze che, fino a solo due settimane fa ricordavano, all’incirca ogni quarto d’ora, come qualche abitante della città stesse affrontando un viaggio per il quale non sempre era garantito il ritorno. Il suono delle sirene è per me, come per molti, uno degli elementi in grado di riattivare il mio “sistema d’allarme”, dandomi la percezione, non appena ne entro in contatto, della presenza di un pericolo imminente che la mente non associa più come un tempo alla sola sporadica emergenza, bensì alla tragedia accaduta in queste terre nell’ultimo mese e mezzo. E questo è solo uno dei possibili stimoli percettivi in grado di riattivare il trauma (i cosiddetti triggers) che collettivamente e globalmente ci siamo trovati a vivere: attorno a noi infatti, nel giro di pochissime settimane, tutto è cambiato e risposte certe per il nostro futuro purtroppo nessuno le possiede.
In questo clima di profonda incertezza, immaginare come stia cambiando e come evolverà il lavoro del formatore non è ancora dato sapersi, o quanto meno, a me non è noto. Quello che però certamente posso affermare è che la pandemia si è a tutti gli effetti collocata come un evento che ha stravolto e stravolgerà ancora le nostre abitudini. In alcuni casi anche le nostre stesse vite.
Come psicologa e psicoterapeuta, oltre che come formatrice, quel che posso rendere noto è che la portata di questo evento è e sarà talmente potente da richiedere a tutti noi oltre ad una grandissima flessibilità, la necessità di ascoltare i nostri vissuti, senza negare quanto stia accadendo (reazione fisiologica ad inizio evento, ma patologica se protratta nel tempo), ma nemmeno senza lasciarsi travolgere da quello che più voci hanno definito il nemico invisibile. Credo, a tal proposito, che proprio la caratteristica dell’invisibilità del virus all’occhio umano influenzerà non solo le nostre future aule o consulenze ma anche le relazioni umane in generale. Come infatti sappiamo, i Coronavirus sono una vasta famiglia di virus noti per causare malattie che possono andare dal raffreddore a patologie più gravi come la Sindrome respiratoria mediorientale (MERS) e la Sindrome respiratoria acuta grave (SARS), ma, il nuovo coronavirus Sars-CoV-2, che sta tenendo con il fiato sospeso l’intero pianeta, sappiamo anche essere caratterizzato da un’alta diffusibilità fra gli uomini: le goccioline di saliva (droplet) che vengono prodotte e diffuse nell’ambiente quando parliamo, tossiamo, starnutiamo, come sappiamo possono facilmente contagiare gli altri. Se quindi il virus è un nemico invisibile, il suo potenziale veicolatore è al contrario molto ben visibile e si tratta proprio dell’altro da noi: il vicino che possiamo incontrare per strada, il collega che condivide con noi un progetto, il lavoratore che partecipa a un nostro corso di formazione. Il formatore, quando tornerà a far formazione in modalità “più ravvicinata”, potrebbe pertanto ritrovarsi a riconoscere, accogliere e gestire possibili meccanismi di difesa attivati dai corsisti che, a loro volta, potrebbero percepirlo non più solamente come un potenziale veicolatore di sapere, bensì anche d’altro.
Dato che ad oggi non è facile immaginare come la formazione ripartirà, sebbene sia noto ai molti che in alcuni casi non si è mai arrestata grazie all’uso della tecnologia che mai come ora è entrata a fare parte della nostra quotidianità, certamente potrebbe essere utile cominciare a riflettere sulle potenziali accortezze che il formatore dovrà avere nel momento in cui i corsi riprenderanno dal vivo. Come primo fattore dovremo tenere presente che il formatore verrà coinvolto nel rispetto del cosiddetto distanziamento interpersonale: spazi più ampi e/o corsisti in minor numero. Certamente non sarà più pensabile immaginare che le nostre aule torneranno ad avere quelle caratteristiche di vicinanza a cui siamo abituati, quegli spazi ristretti che permettevano di creare la relazione già anche solo nell’accostarsi al corsista dandogli la mano per una prima presentazione o facendogli un sorriso con la scusa di consegnargli la dispensa della giornata. Certo che si sorriderà ancora, ma quel sorriso giungerà da una maggiore distanza e sarà coperto da una mascherina, alleata preziosa nella prevenzione dei contagi. Ecco allora che il formatore dovrà imparare ancor più a sorridere con gli occhi.
All’interno di un distanziamento sociale in cui lo sguardo diventerà dunque un ingrediente ancor più fondamentale nel creare connessioni, empatizzare, trasmettere emozioni, ci troveremo inevitabilmente a confrontarci con una popolazione cambiata, più o meno traumatizzata, certamente diversa. A seconda infatti del tratto di personalità e dei vissuti precedenti di ogni singola persona, ogni formatore si troverà ad incontrare lavoratori che potranno andare più o meno incontro a sintomi quali maggiore stanchezza e calo di concentrazione e memoria, timore di infettare, di avere infettato, o di essere infettati (nei casi più estremi di essere percepiti o di percepire l’altro come potenziale untore). Gli psicologi sanno infatti bene come, di fronte ad un evento traumatico, il sistema di attaccamento pregresso della persona entri in campo permettendogli di attivare o meno le risorse necessarie per il fronteggiamento della situazione, slatentizzando in alcuni casi specifiche fobie, possibili comportamenti di evitamento, vissuti emotivi confusi e complessi. I lutti e le numerose perdite, specie nei territori lombardi in cui la popolazione si è spesso ritrovata a dover salutare i propri cari senza nemmeno un rituale necessario a dare l’avvio ad un processo sano di elaborazione del lutto stesso, potremo inoltre ipotizzare che porteranno i superstiti a manifestare più facilmente sentimenti di rabbia e (forse) ad avvertire la necessità di trovare un capro espiatorio in cui collocare le emozioni intollerabili esperite a fronte dell’impotenza sperimentata (a tutti è purtroppo nota la scena dei mezzi dell’esercito in coda che trasportano le vittime da Covid-19 di Bergamo fuori provincia per la crematura delle salme). Anche la paura dell’instabilità economica porterà infine lavoratori e aziende ad esporsi ad un grado di maggiore preoccupazione che, se non correttamente gestito, potrà dare adito a possibili casi di depressione, ansia, insonnia, utilizzo di alcol o sostanze.
L’effetto di traumatizzazione correlato alla pandemia, e questo credo sia il punto più nodale, è e sarà inoltre caratterizzato da un singolare vissuto relativo alla temporalità e alle aspettative e credenze di ognuno. Siamo e saremo infatti chiamati a vivere il “presente” dovendoci adattare parallelamente ad una sfida psicologica alquanto complessa: accostarci al nostro futuro prossimo accettando il fatto che sarà maggiormente simile all’attuale “presente” piuttosto che ai tempi che hanno preceduto l’arrivo del virus. Questa sfida renderà l’esposizione alla pandemia, se confrontata con altri eventi traumatici seppur terribili, ancora più complessa: la presenza di un tempo d’inizio ma l’assenza (almeno ad oggi) di una fine, ossia di un termine a cui far riferimento per poter “normalizzare” le nostre vite, difficilmente potrà lasciar trapelare la possibilità che la soluzione sia il ritorno al “prima”, piuttosto porterà a doverci orientare nel mare dell’incertezza dovendo immaginare un nuovo “dopo”, che tenga conto del fattore di illusione che fino a “ieri” ci faceva percepire il sistema pre-Covid 19 come infallibile.
Nelle aule del formatore, siano esse on line o in presenza, è probabile che tale aspetti di carattere psicologico saranno rintracciabili nella platea dei corsisti che potrebbero avere una minor soglia attentiva e una minor concentrazione, dovuta al fatto che una parte della psiche individuale e collettiva potrebbe essere “occupata” a rielaborare o a tenere a bada quanto accaduto. Il formatore dovrà così permettere ai corsisti di dare voce ai vissuti legati alla pandemia: come tenere corsi di formazione sulla sicurezza se le persone stesse potrebbero aver smarrito (speriamo temporaneamente) il loro proprio senso di sicurezza individuale collocato all’interno di uno spazio e di un tempo improvvisamente stravolti? In tal senso, potrà essere utile che le metafore utilizzate dal formatore attingano ad una realtà cambiata e al senso di pericolo che ha accomunato tutti, pur sempre attraverso un equo dosaggio: non si potrà far finta di nulla, bensì sarà utile far riferimento all’esperienza della pandemia come elemento di discussione e come nuovo esempio anche di buone prassi e comportamenti. Tuttavia andrà posta attenzione nel non eccedere nel richiamo continuo a tale evento, perché il rischio potrebbe essere l’esposizione dei corsisti a una nuova ritraumatizzazione. Cum grano salis, dunque, direbbero i latini.
Un altro elemento da tenere presente sarà inoltre la possibilità che la formazione on line diventi nel tempo non più solo una soluzione tampone, bensì una prassi maggiormente diffusa ed utilizzata. In tal caso, se i benefici potranno essere correlati alla diminuzione degli spostamenti e ad un minore rischio di contagio, sarà però necessario tenere conto del livello di maggior distrazione al quale i corsisti potrebbero essere sottoposti a distanza, complice la possibile riduzione della curva attentiva che, come sopra già detto, potrebbe essere collegata allo stress attuale e ad una minore disponibilità di risorse.
Senza mascherina, a distanza, il formatore potrà trovare la possibilità oltre che del contatto oculare anche di “riscoprire” il proprio sorriso: in tal senso ricordare che il linguaggio paraverbale dovrà essere monitorato e se necessario rafforzato per poter ovviare alla distanza, è fondamentale (spesso con l’uso delle piattaforme tale elemento è favorito dal fatto che il formatore può vedere anche se stesso, cosa non possibile in aula). La mancata presenza e condivisione dello spazio fisico, piuttosto che l’impossibilità di poter vedere la parte inferiore del corpo dei corsisti, o ancora l’impossibilità per il formatore di potersi muovere come faceva in aula, dovrà inoltre portare i docenti a sviluppare maggiori strategie di ingaggio del loro pubblico.
Implicita ma non scontata sarà anche la padronanza da parte del formatore del mezzo tecnologico: così come in aula si crea un “setting” ad hoc con attenzione agli strumenti e alle metodologie, allo stesso modo il formatore a distanza dovrà saper superare eventuali problemi o limiti tecnologici.
Complessivamente sarà quindi utile per tutti i formatori saper razionalizzare le esperienze di questo periodo di quarantena che ha dimostrato come l’uomo sia spesso anche più adattabile di quanto si pensi, consolidando le proprie competenze tecnologiche e confrontandosi se necessario con i propri colleghi maggiormente esperti. Fare formazione ai tempi della Covid-19 significherà infine vivere sia come testimoni che come condottieri l’attuale periodo, impegnandosi nel traghettamento verso nuove realtà didattiche ed esperienziali e fornendo ai propri corsisti la giusta vicinanza emotiva.
Infine un’ultima riflessione: il formatore, così come i lavoratori e i corsisti, è parte attiva della realtà complessa che d’improvviso si è presentata. Molto probabilmente anch’egli si è ritrovato in questo periodo a dover sperimentare momenti di raccoglimento interno che lo possono aver portato ad interrogarsi non solo sul futuro lavorativo ma anche sul senso della propria vita e di quella della comunità, partendo dal piccolo paese fino a giungere ad una visione più globale. Ad alcuni non sarà inoltre sfuggito come il modello sociale ed economico pre-Covid 19 abbia mostrato in maniera evidente tutte le sue carenze e debolezze. Partendo dall'ipotesi Gaia formulata da James Lovelock, che ci ricorda come il pianeta Terra è a tutti gli effetti un essere vivente che si auto-regola e le cui componenti si mantengono in condizioni adatte alla vita solo grazie ad un corretto comportamento e all'azione degli organismi da essa ospitati, la pandemia sembra essersi imposta non solo come terribile crisi sanitaria, ma anche come segnale di un modello consumistico che da tempo sembra aver trasceso i limiti della capacità biologica del nostro pianeta portandolo ripetutamente al collasso. Forse immaginare e aiutare ad immaginare un nuovo futuro, basato proprio sugli elementi che si sono attivati in emergenza, quali ad esempio la solidarietà (sia spontanea che organizzata) o il credere nella reciproca affidabilità e in nuovi scenari di “responsabilità collettiva” sarà un primo passo per far fronte alla possibile devastazione sociale ed economica che ci si è presentata. Anche il formatore nel suo piccolo potrà pertanto fornire supporto nell’attivare e promuovere tali riflessioni per potersi realmente definire un reale “agente di cambiamento”. A ognuno di noi la scelta.
AiFOS - Associazione Italiana Formatori ed Operatori della Sicurezza sul Lavoro
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