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Approfondimento a cura di Gabriela Ghet, giurista d'impresa presso Il Centro di Formazione AiFOS Applika srl
La violazione delle norme antinfortunistiche che non sia connotata da occasionalità né dovuta a caso fortuito, ma sia stata frutto di una specifica politica aziendale, volta alla massimizzazione del profitto con un contenimento dei costi in materia di sicurezza, a scapito della tutela della vita e della salute dei lavoratori fa sì che vengano integrati tutti i criteri di imputazione per affermare la responsabilità dell’ente ai sensi del D.lgs. 231/01.
È questo il senso della pronuncia del Tribunale di Monza del 03/09/2012 che condanna la società datrice di lavoro di B.I., operaio rimasto vittima di un terribile infortunio mortale che vedeva coinvolta un’autogrù non idonea ai parametri normativi di sicurezza, al pagamento della sanzione pecuniaria di Euro 80.000, vista la mancata adozione da parte dell’ente di un modello organizzativo idoneo alla prevenzione dei reati di omicidio colposo e lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro.
Ad oggi, la “cultura 231” nella realtà viene percepita non solo come una scelta di legalità in ambito aziendale, ma si presenta altresì come un importante strumento manageriale di tutela del business. In quest’ottica, l’implementazione di un modello di gestione e controllo con il fine di governare il rischio di commissione di reati in azienda, si prospetta come un accorto investimento volto ad evitare una serie di conseguenze dannose quali possono essere, da un punto di vista meramente imprenditoriale, i danni economici e d'immagine. Consideriamo che solo la sanzione amministrativa pecuniaria prevista all’art. 10 del D.lgs. 231/01 può arrivare fino a Euro 1.549.000, senza contare le sanzioni interdittive (quali, a titolo esemplificativo, l’interdizione all’esercizio dell’attività o il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione) le quali per certe imprese possono risultare sicuramente più gravose (in particolar modo per le une che prevedono specifici “fondi rischio” in grado di coprire l’irrogazione di qualsivoglia sanzione pecuniaria).
Tornando al caso di specie, la sentenza del Tribunale di Monza merita senz’altro un’attenta analisi in quanto riporta interessanti spunti di riflessione su come si concretizza l’applicazione del D.lgs. 231/01.
1. Ricostruiamo brevemente la dinamica dei fatti che portarono al verificarsi dell’incidente mortale in argomento ai fini di delineare il quadro all’interno del quale il Giudice si pronuncia sulla responsabilità dell’ente. L’infortunato, dipendente con mansioni di operaio montatore, si trovava alla guida di un’autogrù presso un cantiere nel quale la società datrice operava in subappalto. Il gruista, guidando l’autogrù all’uscita dal cantiere, arrestò la marcia nei pressi del cancello, ma l’automezzo iniziò a retrocedere lungo la scarpata retrostante. Il lavoratore tentò l’uscita dalla cabina di guida ma, impigliandosi alla portiera, rimase schiacciato sotto l’autogrù la quale nel frattempo si era ribaltata. Dall’attività istruttoria risultò che la mancata possibilità per il lavoratore di arrestare l’autogrù in discesa fu causata dal fatto che entrambi i sistemi frenanti si presentavano fuori uso.
2. Ciò considerato, il Giudice ritiene ravvisabile in primis la violazione della norma cautelare generale di cui all'art. 2087 c.c. in vista del mancato impiego da parte del datore di lavoro delle attrezzature più sicure in base allo stato e al progresso della tecnica. Inoltre, si considera integrata la violazione degli artt. 70 e 71 del D.lgs. 81/2008 sui requisiti di sicurezza delle attrezzature di lavoro e i relativi obblighi del datore; contestando altresì la carenza del POS per non avervi previsto alcuna valutazione del rischio specifico connesso all’uso di una gru di vecchia generazione e né alcuna procedura specifica; ritenendo altrettanto violato l’art. 100 del D.lgs. 81/2008 per non aver rispettato quanto fissato all’interno del Piano di Sicurezza e Coordinamento. Sono queste le ragioni che portano alla condanna degli imputati in qualità di amministratore delegato della società e gestore di fatto dell'impresa.
3. Fatta questa breve premessa sulle ragioni di fatto e di diritto che hanno portato il Tribunale a ritenere la sussistenza del reato presupposto, occupiamoci, a questo punto, della responsabilità amministrativa dell’ente. In merito, il Giudice antepone una trattazione piuttosto articolata su alcune problematiche interpretative riferite all’impianto normativo 231, con particolare riguardo ai criteri di imputazione, che risulta interessante riproporre.
3.1. Anzitutto si discute della compatibilità tra la natura del reato colposo, caratterizzato dalla non volontarietà dell’evento, e il finalismo della condotta ovvero l’ottenimento di un interesse o vantaggio per l’ente. Se a tale quesito provassimo a dare una risposta negativa, ossia sostenere una incompatibilità tra i due concetti, è chiaro che ciò porterebbe ad uno svuotamento della norma e ad una abrogazione in via interpretativa. Tuttavia, ad oggi, la tesi interpretativa maggiormente adottata dalla giurisprudenza è quella che applica l’interesse e il vantaggio non al reato complessivamente inteso, ma alla mera condotta da cui deriva l’evento colposo. In tal senso, a titolo esemplificativo, sussisterà interesse o vantaggio per l’ente quando il comportamento che porta al verificarsi del reato colposo sia stato posto in essere con la volontà di omettere investimenti nella salute e sicurezza dei lavoratori.
3.2. Ma come si comprende quando siamo in presenza di un interesse oppure di un vantaggio?
Si tratta di una ulteriore questione analizzata all’interno della sentenza in esame. In primo luogo il Giudice spiega come tali concetti siano alternativi tra loro: sia in ragione della locuzione “o” impiegata dal legislatore al primo comma dell’art. 5, sia in ragione del dettato dell'art. 12 primo comma, lettera a), disposizione la quale fissa una riduzione della sanzione pecuniaria nel caso in cui l'autore abbia commesso il reato nell'interesse proprio o di terzi e l'ente non ne abbia ricavato vantaggio o ne abbia ricavato un vantaggio minimo. Questa seconda disposizione prevede implicitamente che il reato possa essere commesso nell’interesse dell’ente senza che esso ottenga vantaggi di alcun tipo. A tal proposito, sia la Relazione Ministeriale al D.lgs. 231/2001 (paragrafo 3.2) che la giurisprudenza maggioritaria affermano che al fine di individuare l’interesse si richieda una valutazione ex ante; viceversa, per individuare il vantaggio è opportuno operare una verifica ex post. Più nello specifico, in tema di responsabilità amministrativa degli enti derivante dall’integrazione del reato presupposto trattato all’art. 25-septies (omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro), secondo la giurisprudenza, sussiste l'interesse dell'ente nel caso in cui l'omessa predisposizione dei sistemi di sicurezza determini un risparmio di spesa, mentre si configura il requisito del vantaggio qualora la mancata osservanza della normativa cautelare consenta un aumento della produttività.
3.3. Occupiamoci ora del secondo criterio di imputazione oggettiva - dopo l’interesse o vantaggio - vale a dire la necessità, affinché si configuri la responsabilità amministrativa dell’ente, che il reato presupposto sia stato commesso da soggetti che ricoprano, all’interno della struttura aziendale, funzioni apicali o subordinate. Il Giudice mette in luce il fatto che la delegabilità delle funzioni crea nella pratica problemi non di poco conto quanto all’individuazione della qualificazione del reo in termini di “apicale” o “subordinato”. Ne abbiamo riprova guardando al caso di specie, nel quale uno degli imputati, formalmente individuato come direttore tecnico della società legalmente rappresentata dalla moglie, era invece gestore di fatto della società in assenza di delega. Ciò, peraltro, ha portato alla condanna di entrambi i coniugi, quando invece, se il marito fosse stato munito di una formale delega di funzioni, probabilmente essa sarebbe stata liberatoria nei confronti della moglie, amministratrice unica della società. A rafforzare questa tesi è intervenuta una recente pronuncia del Tribunale di Bari secondo la quale l’obbligo di protezione imposto al datore di lavoro ed il principio costituzionale di personalità della responsabilità penale escludono che un soggetto possa rispondere penalmente di eventi causati da azioni od omissioni di altri. In altre parole, il fatto che un soggetto rivesta il ruolo di amministratore di una società di capitali non può automaticamente addossare a tale soggetto la responsabilità penale per tutti i reati commessi nell’esercizio dell’impresa, altrimenti ricorrerebbe un’ipotesi di responsabilità oggettiva contraria alla Costituzione (Tribunale Bari, Sez. I, 09/06/2021 n. 1718). Chiusa questa parentesi sulle deleghe di funzioni, dicevamo che la distinzione tra soggetto apicale e subordinato non è sempre lineare, tuttavia si presenta come determinante quanto ai suoi effetti sui criteri di imputazione soggettiva del reato all'ente e di conseguenza instaura diversi regimi, come previsto dagli artt. 6 e 7 D.lgs. 231/01. Brevemente e per completezza, nel caso di reato commesso da soggetti apicali, in ragione del rapporto d'immedesimazione organica, il legislatore ha previsto la responsabilità dell'ente salvo prova liberatoria di cui all'art. 6, mentre nel caso di reato commesso da soggetti dipendenti ha subordinato la responsabilità amministrativa della persona giuridica alla prova, da parte dell'Accusa, dell'inosservanza degli obblighi di direzione e vigilanza, obblighi che si presumono rispettati se è stato adottato un modello organizzativo.
4. In conclusione, vale la pena soffermarci su come il Giudice abbia “costruito” la responsabilità dell’ente sulla base dei criteri d’imputazione appena trattati. Anzitutto si può pacificamente sostenere che il delitto di omicidio colposo qui in argomento si sia verificato a causa di plurime violazioni delle norme in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, già menzionate sopra, integrando così uno dei reati presupposto previsti dalla norma che qui ci occupa. In secondo luogo, tali violazioni sono imputabili al legale rappresentante e al dirigente della società, entrambi qualificati come soggetti apicali all’interno dell’ente. In terzo luogo si sostiene come violazioni della normativa prevenzionistica siano state commesse a vantaggio dell'ente, segnatamente quanto al risparmio dei costi connessi all’acquisto di un’autogrù sicura e conforme alla normativa vigente all'epoca del fatto e ai costi connessi ad un’adeguata formazione dei lavoratori, con particolare riguardo all’impiego dell’autogrù in oggetto. Infine, l’aspetto più determinante è che l’ente non ha dimostrato l’adozione e l’efficace attuazione di alcun modello di organizzazione e di gestione finalizzato alla prevenzione del rischio di commettere i reati di cui all’art. 25-septies D.lgs. 231/01. Ciò posto, ricorrendo tutti i criteri di imputazione oggettiva e soggettiva, il Tribunale ritiene configurabile la responsabilità della società per l'illecito amministrativo in contestazione e fissa la sanzione pecuniaria in Euro 80.000,00, tenuto conto della riduzione concessa dall’attenuante di cui all'art. 12 comma 2 lett. a), avendo la società integralmente risarcito il danno (elemento che porta peraltro alla inapplicabilità delle sanzioni interdittive). In aggiunta, il Giudice dispone la confisca dell’autogrù impiegata nella commissione del reato ai sensi dell’art. 240 c.p..
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