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29 settembre 2025

Interventi e commenti

A volte bisogna fidarsi di un nodo vicino allo stomaco

Alla scoperta della montagnaterapia con Emanuele Frugoni, educatore professionale

A volte bisogna fidarsi di un nodo vicino allo stomaco

Sono le 7 di una mattina fredda di fine luglio; sto salendo con Matteo il versante sud-est del Lagghinhorn, una montagna di poco più di 4000 metri in Svizzera.

Con il ritiro dei ghiacciai è diventata praticamente un’enorme montagna di roccia e detriti; tanti detriti sui quali interpretare la traccia di salita, la quale spesso si perde per colpa dei crolli o del ruscellamento dell’acqua.

Siamo ancora lontani dalla cima e siamo soli in quel tratto di montagna, ci rendiamo conto di aver sbagliato traccia; eppure ci sembrava di aver seguito un sentierino plausibile, battuto tra la ghiaia detritica depositata e calcata tra una roccia e l’altra.

Il percorso ci porta sempre più lontano dalla cresta spingendoci nel pieno della parete est che cade a picco sulla morena glaciale qualche centinaio di metri sotto di noi; vedo sopra di me un canale di roccia buona e compatta che sembra salire verso la cresta, cerco di interpretarne le difficoltà e dico al mio compagno che faccio un tentativo.

Comincio a salire arrampicando, mi concentro sui movimenti, sistemo bene le punte degli scarponi sugli appoggi cerco di sentire gli appigli con le mani infilate nei guanti e salgo; continuo a salire per qualche decina di metri, sotto di me la vallata si apre bella e impressionante: solo le punte degli scarponi e le dita delle mani mi tengono aderente a questa realtà di roccia e vuoto, la corda è disposta per bene dentro lo zaino, nessuna sicurezza tecnica mi permetterebbe di gestire un possibile errore; ogni tanto un sassolino scappa da sotto le suole degli scarponi finendo tre o quattrocento metri sotto di me.

Raggiungo una piccola cengia e guardo verso l’alto, la parete si impenna ulteriormente aumentando visibilmente le difficoltà; la roccia è buona ma sono combattuto sull’utilità di ciò che sto facendo; non ho paura, non penso a chi a casa attende il mio ritorno, non provo la minima vertigine, mi sembra di star bene in quel posto di vuoto e roccia; forse troppo bene. Scelgo quindi di tornare sui miei passi, l’attenzione è sempre più elevata nell’arrampicare indietro; lo zaino è pesante e tende a tirarmi verso il basso, devo stare molto attento, ad ogni passo che faccio devo pensare in anticipo al movimento successivo, senza però deconcentrarmi dall’azione che sto compiendo.

Devo anticipare le mosse senza perdere l’attenzione sul movimento che sto eseguendo; in questi momenti è fondamentale riflettere esclusivamente sul particolare e capire come gestire la discesa centimetro dopo centimetro: è complesso gestire i centimetri su chilometri quadrati di parete, ma è l’unica ragionevole sicurezza in quel momento.

Esperienze come questa vissute in montagna, ma soprattutto le emozioni intense provate in certi momenti, quando la sicurezza sta molto di più nella gestione dell’ansia e della paura che nell’utilizzo dell’attrezzatura, mi hanno portato a proporre, da molti anni ormai, ai ragazzi del Centro che coordino progetti di Montagna Terapia, cioè esperienze organizzate in ambito montano e volte a produrre in loro un cambiamento o un processo abilitativo; utilizzo la montagna per mantenere attiva in loro un’azione di apprendimento, dove il ragazzo stesso è attore principale delle proprie scelte.

Camminando o arrampicando in montagna, nel mio tempo libero, non posso non pensare a quanto chiedo a pazienti e a colleghi; persone che spesso non hanno mai fatto attività alpinistiche

Nella costruzione di questi progetti devo tenere conto che portare dei ragazzi in montagna significa esporli al pericolo insito nell’ambiente naturale: questo pericolo non è vissuto solo dai pazienti, ma è condiviso da me e dai colleghi che mi seguono in questa avventura.

Rivedo i loro occhi mentre si espongono al vuoto delle pareti e, cercando di fidarsi di me, si lasciano andare facendosi abbracciare dallo spazio intorno a loro: appesi esclusivamente ad un esile corda e assicurati da persone che conoscono poco.

Cosa sto chiedendo a loro? Mi chiedo mentre li guardo dal basso, dall’alto o affianco a loro legato anche io ad una corda.

Lancio la corda nel vuoto dopo averla agganciata ad una sosta fissa nella roccia, preparo il nodo autobloccante e infilo la corda nel discensore, avvito le ghiere dei moschettoni e sgancio dalla sosta quello che mediante una fettuccia mi tiene assicurato alla parete. Ora mi devo sporgere verso l’abisso e lasciarmi scivolare lungo la corda doppia: in certi casi questo è l’unico modo per scendere da una parete e poter tornare in un luogo ragionevolmente sicuro.

La ragionevolezza, non la certezza, anzi quest’ultima credo non esista proprio; men che meno in montagna.

La ragazza è sull’ultimo ballatoio della parete, a fianco a lei l’istruttore spiega un’altra volta la tecnica di discesa in corda doppia: un’altra volta in quanto lei è già scesa in questo modo da un’altra parete, ma decisamente più corta e meno esposta. Mentre l’istruttore le sta spiegando ogni particolare dell’attrezzatura io, leggermente sotto di loro e spostato rispetto alla traiettoria di discesa, li guardo; mi accorgo che lei non ha il coraggio di volgere lo sguardo in basso, non sa che la sosta a cui è agganciata e tutta l’attrezzatura potrebbero sostenere un’automobile; mi sembra di leggere nel suo pensiero tutte le ansie di una vita di abbandoni e di esclusioni sociali; ogni paura della ragazza viene catalizzata dalla non possibilità di prevedere fino in fondo ciò che potrebbe succederle; il vuoto che lei vive nel suo spirito viene proiettato in quello concreto fatto di aria e panorami vastissimi che in questo momento vorticano attorno al suo corpo.

Anche io sposto lo sguardo e mi concentro un momento sullo splendido e immenso panorama, mi sembra di riuscire ad abbracciare l’intero lago d’Iseo; sposto lo sguardo per pochi secondi poi controllo ancora le manovre di corda che lei sta facendo, osservo i suoi movimenti mentre si sposta verso il vuoto, un piccolo passo per volta, volgendo la schiena al precipizio, sembra desideri assaggiare fino in fondo il momento in cui dovrà affidarsi solo alla corda.

La ragazza porta il corpo oltre la cengia di roccia, i piedi li tiene fermi sul bordo, si siede nell’imbragatura fin quando la corda va in tensione poi, distende le gambe portando tutta la sua figura nell’azzurro del cielo, mantenendo in questo modo il corpo perpendicolare alla parete; guardo la sua silhouette che si staglia elegante, in contro luce nel sole della tarda mattinata: i piedi contro la roccia e il resto del corpo sospeso nel vuoto.

Sposta la mano sul nodo autobloccante e comincia a camminare calandosi verso il basso, scende lentamente verso di me, che sono assicurato ad una sosta a metà della parete (che sta scendendo); mi raggiunge, lei appesa ad una corda e io agganciato ad un altro cordino, ci guardiamo negli occhi io le sorrido, lei mi dice che ha paura. Dentro di me penso a come possa aver paura ad affrontare una situazione come questa con tutti i dispositivi sistemati a regola d’arte, quando nella vita si è messa in situazioni tanto rischiose e senza alcuna protezione.

Le prendo le mani e delicatamente gliele stringo, non è più sola nel vuoto dei suoi pensieri; anche in un posto come questo, magnifico e drammatico, sente di potersi fidare di sé stessa e di chi accanto a lei si espone alla verticalità del baratro.

Mentre si allontana, scendendo leggera lungo la corda doppia, la mia voce la accompagna fin dove lei la può sentire, fin quando la sua voce interiore sostituirà la mia e sarà in grado di indicarle cosa fare, guidandola lungo la parete.

Ricordo molte esperienze come queste, vissute nelle giornate in cui ho accompagnato in montagna i ragazzi del Centro; soprattutto ricordo i loro sguardi, le emozioni che provano quando sono appesi in parete, l’ansia che vivono nel momento in cui devono staccarsi da terra e muovere il primo passo che li porterà in un mondo minerale e verticale.

I ricordi affollano la mia mente, ragazzi, tirocinanti, operatori e operatrici che arrivano da me o da un istruttore con l’imbragatura in mano e chiedono: “mi aiuti a indossarla?”.

“Mi aiuti” è una preghiera, un’invocazione che definisce i limiti di chi chiede e le competenze dell’interlocutore; non importa quanti anni hai, se sei uomo o donna, paziente o operatore, è vero solamente che per affrontare un’incognita si ha bisogno delle competenze dell’altro: da soli, pur avendo tutta l’attrezzatura del mondo, ci si sente persi, in pericolo.

Chi si approccia all’esperienza della Montagna Terapia deve oltretutto fare i conti con le proprie fragilità, con la condizione di sentirsi perso e in pericolo anche nel mondo conosciuto; quindi la richiesta di aiuto è un atto ulteriormente sincero e importante; diventa una strategia utilizzabile, oltre che in parete, anche nel mondo “pericoloso” che lo circonda e in cui vive.

L’atto di prendere l’attrezzatura che serve per la sicurezza, da parte di chi è riconosciuto come competente, mostrarla alla persona che chiede aiuto e aiutarla a comprenderne l’utilizzo, non è solo un atto di cortesia ma è un gesto terapeutico, che regolarizza gli stati d’animo, l’ansia e le paure: non sei più solo, ora c’è chi ti aiuta.

Allo stesso modo: insegnare a fare il nodo di assicurazione e agganciare la corda all’attrezzo che permette di frenare l’eventuale caduta, è un esercizio che coinvolge direttamente chi deve imparare a capire l’importanza di questi strumenti e il modo di usarli. Ogni passo spiegato e osservato nel luogo sicuro è un atto di cura, che aiuta a non far sentir solo chi dovrà affrontare la condizione di pericolo; perché poi il luogo sicuro bisogna abbandonarlo e in parete la persona resta sola, rimanendo in contatto con l’altro solamente mediante la corda: e non sarà un caso che la corda parta dal ventre di chi scala e termini al ventre di chi assicura.

Infilo la corda negli anelli di legatura e inizio a doppiare il nodo a “otto” in modo che si stringa all’imbrago, guardo Alice e mi rendo conto che sta fissando con attenzione ogni passaggio nella costruzione del nodo che la terrà agganciata alla roccia e a me che la assicuro. Le mie mani infilano la corda nelle asole della corda stessa, e mentre lavoro racconto ad alta voce ogni azione. Non so se lei comprenda completamente ogni passo, è la prima volta che arrampica; Alice è una tirocinante in psicoterapia ed è interessata alla Montagna Terapia, sicuramente non pensava di “dover” provare il metodo in prima persona, però si sta facendo trascinare verso questa prova. Ormai le mie mani hanno stretto il nodo alla cintura all’altezza del suo ventre, quasi a bloccare per un momento le sue emozioni e le sue paure.

Lei raccoglie la corda che pende inerme dalla cintura e guarda il nodo, lo tocca con le dita senza dire una parola; prendo la sua corda con una mano e, con uno strattone, la sollevo verso l’alto in modo che lei possa sentire lo strappo trasmesso al suo corpo tramite gli elementi dell’imbragatura: “hai visto? Il nodo tiene” le dico.

Prendo l’altro capo della corda e lo inserisco nel freno meccanico legato alla mia imbragatura, al mio ventre: ora siamo legati e possiamo iniziare; non “puoi iniziare” ma “possiamo”. Perché quando si arrampica si è in due e si comunica emotivamente tramite la corda.

Alice mi gira le spalle e avvicina le mani alla roccia, ne accarezza la superficie ruvida e dura, cercando gli appigli migliori; recupero la corda nel freno tirandola bene in modo che lei possa sentirne la tensione, il nodo si alza e dall’altezza del ventre passa a sfiorarle lo stomaco; ora, con il nodo all’altezza dello stomaco, Alice può afferrare un appiglio e appoggiare la punta del piede sul primo appoggio utile, sollevando il proprio corpo verso l’alto. Una mano e poi l’altra stringono la roccia, i piedi spingono verso l’alto e la corda trasmette sicurezza con quel nodo che sicuramente non vede ma che sente con la bocca dello stomaco, dove ad ogni passaggio, ad ogni spinta e ad ogni trazione le emozioni escono dal suo stomaco correndo rapide lungo la corda, come una scarica di corrente.

Non so cosa dia più sicurezza, se l’attrezzatura o un insieme di fattori tra materiale, narrazione e relazione umana; sicuramente la comprensione dell’importanza dell’attrezzatura la si capisce quando la caduta viene rallentata e frenata, ma in questo caso ormai si è caduti, ciò significa che ci si è già esposti al pericolo.

Ma per poter cominciare e staccarsi da terra non basta aver gli strumenti tecnici giusti, forse serve altro, è necessario qualcuno che sappia stringere un nodo relazionale e tecnico che permetta alla persona di desiderare di affrontare un’avventura che possa, in ragionevole sicurezza, cambiarle la vita.

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