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Intervento di Rita Somma, consulente H&S, sociologa del lavoro, consigliere nazionale AiFOS
La formazione, si sa, impatta prepotentemente sulle condizioni di rischio per la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. Una formazione che non può e non deve essere intesa solo come prescrittiva, per rispondere ad un obbligo cogente, ma anche valoriale e culturale, all’interno di un più ampio processo progettuale che porti al centro il soggetto, il lavoratore. La progettazione del processo formativo deve essere dunque adattativa, in un rapporto dinamico di coevoluzione con il destinatario di quell’azione educativa. La riflessione prospetta la necessità strategica di coltivare una cultura della formazione che va di pari passo con quella della sicurezza.
L’obbligo formativo, come misura di prevenzione dai rischi per i lavoratori e gli altri soggetti del sistema di prevenzione e protezione aziendale, ha comportato senz’altro passi avanti nel garantire sicurezza nei luoghi di lavoro ma, l’osservazione della realtà, ci dice che qualcosa ancora non funziona come dovrebbe. Troppo spesso, infatti, la formazione è relegata ad un mero obbligo formale, fatto di carte ed attestati (quando non sono fasulli), canalizzata in una logica capitalistica che la fa intendere come un bene di consumo, un oggetto come un altro che può essere commercializzato nell’ottica neoliberale di mercato, che non garantisce così il raggiungimento dell’obiettivo prefissato: quello di favorire sicurezza.
Formazione che non è la panacea di tutti i mali, ma costituisce senz’altro un punto di partenza per poter operare in sicurezza. Una formazione però che, se inefficace, non sposta di un millimetro il problema. Lo scopo dell’azione formativa deve essere il raggiungimento dell’obiettivo educativo, non quello certamente di inseguire un attestato fine a sé stesso. Per trasferire ai lavoratori le conoscenze utili all’acquisizione di competenze per lo svolgimento in sicurezza dei compiti, si sa, oltre alla forma ci vuole la sostanza. Il legislatore sembra essersi accorto della questione e, nelle più recenti modifiche al D. Lgs. 81/08 (Legge 17 dicembre 2021, n. 215 di Conversione del decreto-legge 21 ottobre 2021, n. 146), ha introdotto novità importanti proprio in materia di formazione, seppur rinviandone sostanzialmente l’applicabilità a modalità attuative da definirsi con successivi ASR.
La speranza è che questi preannunciati Accordi trattino adeguatamente gli aspetti qualitativi che oggi sembrano non sempre essere all’altezza dell’importante compito, ma che impattano prepotentemente sull’efficacia dell’azione formativa: soggetto formatore, docente formatore, contenuti, metodologia didattica, modalità di verifica, etc., questioni che gli addetti ai lavori conoscono bene e che necessitano senz’altro di un intervento per garantire qualità. La sfida però dovrà essere anche quella, altrettanto ardua, di indirizzare verso una progettazione formativa inclusiva della persona, per garantire percorsi performanti ed equità di accesso all’acquisizione di competenze, spostando l’obiettivo oltre la mera applicazione delle indicazioni prescrittive, talvolta poco coerenti con una rappresentazione delle persone e delle loro specifiche necessità. Una progettazione coerente con il risultato finale atteso non può, infatti, prescindere dalla peculiarità del destinatario del processo, dalla sua unicità. Siamo così abituati a parlare di lavoratori, considerati come insieme unitario, standardizzandoli in base al comparto o al rischio, che spesso ci dimentichiamo che ognuno di loro ha una singolarità, una propria storia e caratteristiche che lo rendono unico. Per soddisfare le reali esigenze formative dei lavoratori è importante sapere “chi sono” questi lavoratori, comprendere le capacità, caratteristiche e conseguentemente le specifiche necessità. Fattori soggettivi, quali: età, esperienze pregresse, abilità, genere, istruzione, cultura, caratteristiche personali impattano non poco sulla scelta dell’adeguato percorso formativo e nel decretarne quindi il successo o l’insuccesso.
Le norme indirizzano per la definizione del fabbisogno formativo, ma richiamano necessariamente “tipizzazioni” omogeneizzanti di un lavoratore-tipo, rappresentato nelle sue condizioni dominanti. Ma non tutte le situazioni sono uguali, non tutti i lavoratori sono uguali. Risulta pertanto importante conservare questa consapevolezza nel momento della sua applicazione e, una volta definito l’obiettivo, reintrodurre le variabili che erano state date provvisoriamente per costanti, ragionando quindi sulla persona reale, con tutte le sue sfaccettature e la sua complessità, e non su quella idealizzata. Se questo non avviene, il risultato non risolve in problema, oppure il problema non era quello che era stato inizialmente affrontato. Dalla generalizzazione normativa dunque le organizzazioni devono passare, nell’articolazione del percorso formativo, necessariamente alla specificità, andando oltre gli stereotipi, adattandolo rispetto al destinatario. Il percorso formativo del lavoratore va cucito addosso, in modo sartoriale, partendo certamente dall’orientamento normativo, che deve costituire il punto di partenza e non di arrivo, ma in una progettazione che deve imprescindibilmente considerare la dimensione qualitativa soggettiva, condizione propedeutica per la definizione di strategie educative maggiormente coerenti alle necessità, con un unico obiettivo legittimo: quello di generare competenza. Non bisogna entrare in scena con un copione prestampato, ma interpretare in base agli attori e alla storia da recitare, contaminarsi con il luogo (il palinsesto è tutto, compresi gli altri attori). La standardizzazione tout court delegittima la formazione proprio perché incapace di incorporare le esigenze specifiche.
L’analisi progettuale deve quindi includere imprescindibilmente la qualità della prestazione e l’impatto sul lavoratore. La formazione, inclusiva della persona, diventerebbe così anche la chiave per i datori di lavoro per investire nel benessere nei lavoratori ed aumentarne la produttività. L’idea è quella di una formazione che deve avere un obiettivo strategico di ampio respiro, per garantire sicurezza negli ambienti di lavoro e mettere al centro il lavoratore, puntando all’empowerment, all’acquisizione di competenze tali per consentire la partecipazione attiva alla costruzione delle condizioni di sicurezza e prevenire infortuni, in una chiave interpretativa ampia, che rientra nell’ottica più generale di consapevolezza della cultura della sicurezza, che così può liberarsi della demagogia e dalla retorica.
Una prospettiva questa non nuova. La norma tecnica di riferimento per il rischio elettrico CEI 11-27 (ultima ed. 09-2021), ad esempio, indica espressamente che durata ed ampiezza dell’attività formativa devono essere definite dal datore di lavoro anche in base al background e alle caratteristiche personali (preparazione scolastica, esperienza pregressa, attitudini, età, ecc.) ed in relazione alla complessità dei lavori che dovranno essere svolti, con un ruolo di primo piano che deve essere assegnato all’addestramento operativo, alla simulazione ed all’affiancamento.
Se vogliamo una formazione di qualità, dobbiamo puntare alla qualificazione, all’effettività delle competenze acquisite, garantendo che il personale impegnato nell’esecuzione dell’attività sia davvero in grado di conoscere e percepire i rischi, conosca le specifiche prescrizioni di sicurezza e le procedure aziendali applicabili al lavoro. Passi avanti sono stati fatti ma ancora molto c’è da fare, non solo per la cultura della sicurezza ma per consolidare una diffusa cultura della formazione. L’insieme sicurezza e formazione d'altronde rispecchia la doppia faccia di una stessa medaglia.
Ed è proprio questo passaggio culturale, da una politica della formazione solo prescrittiva a quella in ottica davvero preventiva, se vogliamo trasversale a tutti gli aspetti di sicurezza, che deve diventare grimaldello interpretativo comune ed elemento chiave di svolta, anche per migliorare il valore e la competitività delle imprese.È necessario quindi uscire dalla routine nella quale la formazione sembra caduta, ragionare in modo indipendente o, se si vuole, insubordinato verso i processi di appiattimento prodotti dall’attuale sistema di gestione della formazione, con una nuova formulazione di più ampio respiro che risponde alla necessità di porre le persone reali al centro delle strategie.
In fondo dire che la formazione deve essere adattativa vuol dire che tutto ciò che può impattare con la tutela della salute e della sicurezza deve essere progettato in ottica preventiva reale. Potrebbero aiutare in tal senso riferimenti e regolamenti normativi chiari che promuovono qualità (del soggetto formatore, del docente formatore, della progettazione, metodologica, etc.) e possano rappresentare un orientamento valoriale solido, oltre che prescrittivo. Non che la definizione di norme maggiormente pregnanti possa costituire la terapia per ogni problematica ma, se consideriamo che le norme costituiscono una bussola di riferimento fondamentale per stabilire ed indirizzare verso un comportamento condiviso, è chiaro che questo può costituire un primo problema ostativo nella gestione di tale aspetto.
Il ruolo delle istituzioni è fondamentale per favorire (o meno) questo passaggio. L’invito al legislatore è quello di promuovere politiche che aiutino ad uscire dall’ottica della carta e indirizzino verso una formazione di sostanza e qualità. Il diritto è elemento strutturale ma anche fattore di promozione di processi di cambiamento, anche culturale. La buona volontà non basta, è necessario avere un progetto strutturato e radicale. Una cosa è certa, la formazione per la sicurezza dovrà essere ripensata ma, ancora una volta, dobbiamo domandarci chi sarà a guidare il processo e trovare la via.
AiFOS - Associazione Italiana Formatori ed Operatori della Sicurezza sul Lavoro
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