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Intervento di Rita Somma, consulente H&S, sociologa del lavoro, consigliere nazionale AiFOS, e Rocco Luigi Sassone, Risk Manager e Senior Engineering Consulting membro del GdL Sicurezza del CNI
La riflessione proposta approfondisce la necessità di introdurre un approccio prestazionale alla valutazione dei rischi, orientata verso soluzioni specifiche, concrete e pragmatiche. Per fare questo ci vogliono manager della sicurezza altamente qualificati in grado di interpretare i fabbisogni e fornire adeguate soluzioni.
I finanziamenti del PNRR ed il 110% hanno ulteriormente allargato la forbice dell’elusione delle norme antinfortunistiche. Sembra un bollettino di guerra: INL dichiara che, in edilizia, 9 imprese controllate su 10 non sono in regola con la sicurezza. Dati però che, se formulati con toni sensazionalistici e non contestualizzati, rischiano di dare un’immagine distorta, non esemplificativa della realtà del mondo del lavoro, e fanno passare il messaggio che non funziona nulla, conducendo ad una dimensione di rassegnazione generale, che serve solo ad amplificare demagogia e retorica del rischio. Questa percezione indistinta indirizza verso soluzioni legislative emozionali di rattoppo che spesso appaiono piuttosto inefficaci, in assenza di una vera e propria strategia prevenzionistica di ampio respiro, che possa creare fattivamente le condizioni per evitare o far diminuire i rischi.
Corretto e doveroso parlare delle morti bianche. Ogni infortunio è una sconfitta per tutti ma, cavalcare l’onda del sensazionalismo tout court, che si limita all’indignazione, lascia inerti di fronte alle macerie e crea un alibi a chi pensa che investire in sicurezza non serve, è una perdita di tempo che non porta risultati, indirizzando verso scorciatoie che, quando va bene, fanno intendere la sicurezza come carta da esibire. Per invertire questa tendenza infortunistica bisogna agire proattivamente e adottare strategie condivise, che possano concretamente alimentare ed orientare la rotta verso alternative virtuose, che toccano l’approccio stesso alla sicurezza. Dobbiamo scindere la retorica della cultura della sicurezza dal comportamento competente nelle pratiche di sicurezza, che sostiene invece questo processo culturale. È importante dare, soprattutto alle nuove generazioni, un significato di prospettiva che alimenta fiducia. C’è bisogno di generare una nuova consapevolezza, incentivando il cambiamento ed indirizzando verso un nuovo sistema di prevenzione basato non soltanto sui concetti della valorizzazione del lavoro, che sono senz’altro giusti, ma anche su concetti nuovi come quelli dell'etica del lavoro e l’introduzione di una visuale meritocratica di chi investe in sicurezza. La formazione fatta bene serve, la consulenza prestata da professionisti altamente qualificati, che trovano soluzioni, può contribuire significativamente all'innalzamento dei livelli di sicurezza richiesti dal legislatore. L’introduzione di buone prassi, linee guida e istruzioni operative, così come una valutazione del rischio adeguata, sono efficaci e permettono l’esecuzione sicura dei lavori, creando i presupposti per gestire le attività e regolamentarle, senza frenarle o rallentarle. Deve passare il messaggio che chi investe in sicurezza con cognizione di causa, creando anche degli upgrade di buone pratiche, deve vedere valorizzato il proprio lavoro. Gli esempi in tal senso ci sono già e sono molti. Ed è proprio la condivisione di esperienze che dobbiamo mettere a sistema, per farle diventare patrimonio comune e bussola di riferimento.
Questo vuol dire far evolvere il modello prevenzionistico attuale, basato sostanzialmente sull’approccio tradizionale, rappresentato dalla conformità alla norma di legge, dai suoi obblighi e, soprattutto, dalle sue sanzioni. Ormai sappiamo che tale approccio porta spesso l’azienda a considerare la materia della prevenzione “altro da sé”, un corpo estraneo non utile allo scopo, lontana dalle pratiche organizzative. Fuori dai casi eclatanti, le precauzioni antinfortunistiche vengono così troppo spesso dimenticate, viste come inutili zavorre alla produzione, con fastidio o, nella migliore delle ipotesi, con sufficienza e qualche sorriso di compatimento per chi se ne deve obbligatoriamente occupare. Una sicurezza conservativa, basata solo sull’imposizione di regole tecniche e disposizioni legislative (dettate dal legislatore), non può senz’altro essere applicabile passivamente ad ogni contesto. A questo si unisce la velocità di cambiamento della società della complessità, che rende impossibile la regolamentazione definitiva di qualsiasi sistema, poiché le condizioni mutano continuamente. Le norme sono fondamentali per orientare la rotta dell’agire, ma la sicurezza non può essere intesa solo come un mero obbligo di legge. Accanto quindi all’approccio prescrittivo della sicurezza, l’impianto normativo deve far posto ad un altro tipo di approccio, più moderno ed efficace, quello prestazionale, che possa rispondere ai fabbisogni reali, basato sulla responsabilizzazione, sull’interiorizzazione delle norme e sul risultato. Ed è proprio questo passaggio culturale, da una politica della sicurezza solo prescrittiva a quella in ottica davvero preventiva che deve diventare grimaldello interpretativo comune ed elemento chiave di svolta, anche per migliorare il valore e la competitività delle imprese. È necessario quindi uscire dalla routine nella quale la sicurezza sembra caduta, ragionare in modo indipendente o, se si vuole, insubordinato verso i processi di appiattimento, con una nuova formulazione di più ampio respiro che risponde alla necessità di porre la sicurezza reale al centro delle strategie. Non è una novità, già la prevenzione incendi ne ha delineato la strada, introducendo la possibilità di approccio a doppio binario: approccio tradizionale o approccio prestazionale.
Certo, questo vuol dire l’impegno congiunto di tutte le parti in campo: istituzioni, datori di lavoro, lavoratori. Ognuno, nel suo piccolo, deve dare, costruire, incentivare, programmare, generare consapevolezza e fiducia. Anche i professionisti del mondo della sicurezza possono e devono avere un ruolo cruciale in questo cambio di paradigma a doppio binario, riuscendo ad indirizzare il datore di lavoro verso un approccio manageriale consapevole e sistemico della sicurezza. Via al modus operandi nozionistico, via ai luoghi comuni delle offerte preconfezionate, alla sterile applicazione di norme, orientandosi verso una valutazione dei rischi approfondita e misure di prevenzione e protezione concrete e pragmatiche. La taglia unica non può essere una soluzione. L’impianto prevenzionistico non può dipendere da istruzioni ciclostilate e di larga scala, ma bisogna adottare soluzioni sartoriali cucite su misura. È fondamentale creare i presupposti affinché, chiunque si rivolga al professionista per richiedere un supporto, possa avere la percezione di interlocutori seri, capaci, competenti ed in grado di offrire delle soluzioni adeguate tra le varie opzioni lecite possibili. Non c'è mai soltanto una soluzione, ce ne sono tante, bisogna mettere in condizione i datori di lavoro, ma anche i lavoratori, di poter scegliere tra queste opzioni in base alle specifiche necessità e dare loro la possibilità di indirizzare le loro azioni verso quella che è considerata più adatta allo scopo, mutuando le azioni in ragione di quelle che sono le competenze.
Il cambio di approccio oggi richiesto ai professionisti d'altronde va di pari passo con le evoluzioni delle disposizioni normative e di quelle di vigilanza e magistratura, che di fatto non è più giudicante ma inquirente. Chi non si adegua o non è in condizione di adeguarsi, deve restare fuori. Il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, se parliamo di titolo I, anziché il coordinatore della sicurezza, se parliamo di titolo IV del D. Lgs. 81/08, sono due figure fondamentali che devono possedere una serie di competenze e caratteristiche personali imprescindibili. D’altro canto l'attenzione a questa tematica e le modalità con cui ognuno di noi concorre a svolgerla crea, non soltanto maggiore consapevolezza tra i Datori di Lavoro, ma anche maggiore autorevolezza tra i professionisti. Se questo passaggio non viene fatto è difficile pensare ad una valorizzazione positiva del manager della sicurezza, che non può essere un semplice professionista ma deve avere molteplici e specifiche competenze tecniche (Technical skills) e trasversali (Non-technical skills) necessarie ad affrontare la complessa questione della sicurezza. Per fare questo la buona volontà non basta, questo modo di fare sicurezza, che diventa “un puzzle da ricostruire” senza l’immagine rappresentata nella scatola, è perseguibile solo da alti profili professionali, che possono mettere sul tavolo sapere scientifico ed esperienza sul campo, che invece non sempre si coniuga nella disomogeneità attuale. Un gap che andrebbe risolto. Per l’accesso alla qualifica di RSPP infatti non è richiesta istruzione superiore (ndr accademica) ma è sufficiente un corso di formazione della durata di poche ore, talvolta erogato da soggetti formatori che non garantiscono qualità; così come non è richiesta un’esperienza specifica nel settore, potendo da subito essere abilitati ad operare anche in aziende ad alta complessità.
Ma cosa significa approccio prestazionale alla sicurezza? Proviamo a fare un esempio pratico, che può chiarire i termini della questione, utilizzando l’annoso tema del divieto di sbarco in quota da Piattaforma di Lavoro Elevabile, se non espressamente previsto da fabbricante. È possibile derogare il divieto di sbarco, se ci sono i presupposti, subordinando l’attività alla definizione di una specifica procedura di lavoro e di utilizzo della macchina (con nulla osta del costruttore) che consenta, con l’introduzione di misure compensative, di garantire sufficienti livelli di sicurezza, come previsto dalla Linea guida della Regione Lombardia “Uso delle piattaforme di lavoro elevabili” (Decreto 5551 del 08.07.2014). Questo vuol dire mettere a sistema le caratteristiche della macchina, il contesto del luogo di lavoro e, a valle della valutazione del rischio, ove sussistano le condizioni, definire idonee misure tecniche ed organizzative per ridurre i rischi a livelli accettabili per consentire di sbarcare in sicurezza. Questo caso è esemplificativo di un approccio prestazionale, che prevede soluzioni specifiche e mirate, che consentano di raggiungere la prestazione prefissata (sbarcare in sicurezza) valutando tutti rischi collegati, piuttosto che sul soddisfacimento di una prescrizione. L’ottenimento di adeguati livelli di sicurezza, predeterminati dalle norme di riferimento, prevale e prescinde dalla necessità di seguire pedissequamente regole obbligatorie. È chiaro che qui diventa fondamentale la competenza del professionista che supporta il datore di lavoro.
L’esigenza operativa dell’azienda va quindi sempre considerata e, se ci sono le condizioni di sicurezza valutate in approccio prestazionale, l’operazione va consentita, garantendo risultati finali più aderenti alle specifiche necessità. Un divieto tassativo tout court è più semplice ma, se ritenuto ingiustificato, presta il fianco all’elusione. Se prendiamo il caso specifico esaminato, troppo spesso ci si limita ad intraprendere la strada più semplice della traduzione formale della norma che vieta lo sbarco, pur essendo a conoscenza della diversa pratica, lasciando così con connivenza ai lavoratori le pericolose intercapedini sulle modalità operative, innalzando il rischio e prestando il fianco agli infortuni. Si va ad alimentare così una pratica di sicurezza nota che gioca sull’ambiguità e indeterminatezza formale-informale, mondo dell’ufficialità-mondo dell’underground, che finisce per banalizzare l’intero impianto prevenzionistico e veicolare il modo di intendere la sicurezza verso l’adempimento burocratico difensivo, che si traduce “nell’avere le carte a posto”. In questo retaggio culturale gli eventuali infortuni vengono catalogati come fatalità, nell’ineluttabilità propria dell’impotenza di fronte all’imponderabile, o si traducono nella ricerca di una mela marcia a cui attribuire la colpa, che non risolve comunque il problema sistemico sottostante che, come una roulette russa, attende il prossimo malcapitato. Chi opera nel mondo della sicurezza sa che, nell’operatività quotidiana, sono infatti molte le situazioni dove la scelta è tra vietare formalmente l’operazione, girandosi dall'altra parte quando viene eseguita non in sicurezza, o regolamentarla. Una strategia di sicurezza volta alla regolamentazione indirizza al “governare il rischio”, innalzando effettivamente il livello di sicurezza.
La prevenzione del futuro deve essere quindi immaginata come una materia dinamica in grado di condividere questi approcci con un legislatore attento e aperto all'innovazione, che contempli la domanda di sicurezza concreta. Ed è dal concetto stesso di sicurezza (dal latino "sine cura": senza preoccupazione), dalla garanzia che l'evoluzione di un sistema non produrrà stati indesiderati, che bisogna ripartire, incentivando dinamiche di trasformazione, spostando l’accento sulla prevenzione, in un quadro di fiducia, autonomia e responsabilità condivise. Non una sostituzione ma una nuova strada che, ricalcando quella già disegnata, provi a migliorarla eliminando le distopie. Lo sdoganamento dell’uso dell’approccio prestazionale come via parallela ed alternativa al sistema normativo di tipo prescrittivo, basato cioè sull’utilizzo di una serie di rigide prescrizioni, deve entrare dunque nell’intero mondo della sicurezza, che deve saper applicare i principi ingegneristici, le regole e i giudizi esperti basati sulla valutazione scientifica del rischio. Questo vuol dire discorassi, quando possibile e necessario, da approcci tradizionali di tipo prescrittivo per recepirne altri di tipo prestazionale, di sicuro più complessi, ma in grado di soddisfare i reali bisogni. È necessario indirizzarsi verso interventi di tipo ingegneristico, che rendono possibili definire misure di sicurezza relativamente al rischio specifico.
Un cambio di paradigma, quello delineato, che non vuole essere un semplice slogan ad effetto, ma che diventa una priorità, un’urgenza improrogabile. Se vogliamo invertire in trend infortunistico, ci troviamo costretti a ripensare un po' alla cosiddetta “cassetta degli attrezzi”, smontando e rimontando, ipotizzando nuovi scenari, nuove ipotesi di lavoro e, persino, nuovi strumenti operativi. L’auspicio è che in futuro si possano creare i presupposti necessari affinché questioni come competenza, capacità, etica e coerenza facciano il paio con innovazione e modernità. Una cosa è certa, la sicurezza deve diventare una vera priorità sociale, che richiede un impegno straordinario a tutti e soprattutto di attuare un deciso cambio di passo e, la strada prestazionale, potrebbe rappresentare uno dei modelli per guidare questo processo, costringendo a ragionare sulla sicurezza reale, con tutte le sue sfaccettature e la sua complessità, e non su quella ideale.
AiFOS - Associazione Italiana Formatori ed Operatori della Sicurezza sul Lavoro
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