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La demagogia e la retorica del rischio hanno fatto diventare troppo spesso la cultura della sicurezza un concetto astratto, usato vagamente o genericamente, o anche peggio, in un senso reificato e riduttivo, che minaccia di annullarlo
Uno dei termini che risulta essere più abusato degli ultimi anni: cultura della sicurezza! La demagogia e la retorica del rischio hanno fatto diventare troppo spesso la cultura della sicurezza un concetto astratto, usato vagamente o genericamente, o anche peggio, in un senso reificato e riduttivo, che minaccia di annullarlo. Ed è proprio cercando di inseguire questa chimera della cultura della sicurezza, che ci siamo persi, impantanati in uno status quo che non consente di compiere ulteriori passi avanti nella riduzione del fenomeno infortunistico. Cosa si intende per cultura della sicurezza? Perché sembra essere così inafferrabile? E ancora, come si potrebbe stimolare il cambiamento ed uscire dalla stagnazione infortunistica?
La riflessione di Rita Somma (consulente H&S, sociologa del lavoro, consigliere nazionale AIFOS) e Carmelo G. Catanoso (ingegnere consulente HSE) si propone come contributo, in approccio multidisciplinare, per individuare i termini della questione ed aumentarne la consapevolezza.
Partiamo dall’etimologia del termine cultura, che deriva da cultus, participio passato di colĕre ‘coltivare’, da cui proviene anche il nostro “agricoltura”, la coltivazione dei campi, che fornisce già una prima indicazione per comprendere che non parliamo di qualcosa che cresce spontaneamente ma che è frutto di un processo che ne determina il risultato. Quando parliamo di cultura, infatti, intendiamo un patrimonio sfaccettato prodotto e plasmato da conoscenze, competenze, credenze acquisite nel tempo attraverso lo studio, l’esperienza, la socializzazione, che si traduce in atteggiamenti ricorrenti cristallizzati in schemi mentali ed in istituti di comportamento.
Quanto ci si riferisce alla “cultura della sicurezza” quindi non si include soltanto l’insieme dei valori, ma anche i processi e le pratiche di comportamento, che si traducono in un fare, ma anche in un tralasciare o in un subire. La cultura della sicurezza non è qualcosa posseduto (o non posseduto) da una determinata organizzazione; è piuttosto una forma di azione che, di fatto, va ad incidere sulla messa in atto di comportamenti. Percezione, riconoscimento e gestione stessa del rischio sono tutti intimamente connessi e filtrati dalla cultura sottostante entro cui i soggetti si muovono, espressione di norme scritte ma ancora di più di convenzioni informali, di linguaggi, di modi di pensare e di rappresentare il rischio.
Possiamo definire la cultura della sicurezza come il prodotto dei valori, degli atteggiamenti, della consapevolezza, delle abilità e dei modelli di comportamento individuali e di gruppo che determinano l'impegno nella gestione della salute e della sicurezza integrando tale prodotto nel rapporto tra il sistema sociale e gli individui che ne fanno parte. Diventa chiaro quindi che, quando si parla di cultura della sicurezza, si deve intendere l’attivazione di meccanismi processuali tali per cui la sicurezza diviene obiettivo da raggiungere attraverso la pianificazione, il controllo e l’implementazione consapevole di un complesso di disposizioni o misure necessarie per evitare o far diminuire i rischi.
Questa impalcatura culturale attivatore di processi, che orientano l’agire, è utilizzata invece troppo spesso in modo fuorviante come concetto astratto (ndr di cui riempirsi la bocca), termine inflazionato e logoro luogo comune, usato vagamente o genericamente, o anche peggio, in un senso reificato e riduttivo che minaccia di annullarlo. A livello di applicazione pratica la cultura della sicurezza non trova infatti conferma operativa nelle relazioni di significato, in quelle di potere e nei codici culturali contestualizzati. La demagogia e la retorica del rischio hanno fatto diventare la cultura della sicurezza un’altra chimera che, se così concepita, è pura illusione, una vana fantasticheria obiettivo volatile della filosofia delle cose che non fa spostare di un millimetro il problema.
Dobbiamo scindere quindi la retorica della cultura della sicurezza dal comportamento competente nelle pratiche di sicurezza. Se non si comprende che il processo culturale deve essere costantemente sostenuto da adeguate politiche istituzionali e pratiche organizzative come, ad esempio, la corretta progettazione ed esecuzione d’interventi di manutenzione, d’impianti, di macchinari, ma anche l’informazione, la formazione e l’addestramento dei lavoratori, l’adozione di comportamenti e procedure operative adeguate e così via, garantire la sicurezza non potrà mai diventare realtà. Partire da questa consapevolezza offre la possibilità di innescare nuove energie nel tentativo di provare a produrre cambiamenti significativi del sistema, uscendo dalla logica dell’indignazione che lascia inerti di fronte alle macerie o, al massimo, che cerca di rispondere alla “pancia” dell’opinione pubblica sfoderando soluzioni emozionali che non sono risolutive.
Una “cornice”, quella culturale, che non è da intendersi come panacea prevenzionistica, ma piuttosto come pilastro generatore di senso che orienta l’agire, che fa da “telaio” e prepara la strada alle altre due fondamentali prospettive interpretative di rischio: quella tecnica e quella normativa. Tutte devono scorrere e convergere nella stessa direzione. La segregazione specialistica non deve diventare segregazione mentale. La vulnerabilità ai rischi di una organizzazione dipende infatti da un complesso di fattori tecnici, istituzionali e umani, ciascuno di essi ha una funzione attiva che interagisce con gli altri in complessi processi di mutua relazione e di coevoluzione.
In tale ottica la sicurezza potrebbe quindi tradursi, ad esempio, in:
Una volta chiarito che la cultura della sicurezza non è una dichiarazione d’intenti ma va intesa come obiettivo da promuovere ed attuare con mezzi e risorse, passiamo a domandarci chi può e deve avere un ruolo nella sua attivazione.
Una ricetta univoca probabilmente non c’è, ma servono azioni safety-oriented da parte di tutti gli stakeholders (istituzioni, parti sociali, datori di lavoro, lavoratori, consulenti) ma, come sempre, il ruolo di primo piano è senz’altro ricoperto dal vertice. Banale ma lapalissiano: per guidare il cambiamento c’è sempre bisogno di progettualità, di un direttore d’orchestra che deve proporsi come colui che tutti seguono, poiché è lui che fa il primo passo, che indica la strada. Il vertice deve mettere in campo strategie che richiedono un impegno straordinario ma costante che definisce i tempi, i compiti, le responsabilità. Tale concetto presuppone la pianificazione ed il controllo delle condizioni determinanti a tutela della salute e della sicurezza, attraverso l’implementazione consapevole di un complesso di disposizioni o misure necessarie per evitare o far diminuire i rischi, agendo quindi non solo a valle ma soprattutto a monte, con attività di prevenzione.
Un valido aiuto di indirizzo, per orientare l’azione, potrebbe arrivare dalla solida nervatura scientifica degli studi umanistici, che hanno ormai radicalizzato strumenti interpretativi e di attivazione che propongono risposte operative, paradigmi e applicazioni di essi al reale. La diffusione della cultura della sicurezza trova terreno fertile quando, nella governance dei processi, la mentalità collettiva è generatrice di prevenzione, dove si ricerca attivamente l’informazione, si educa a riferire, la responsabilità è condivisa, gli sbagli provocano riforme attive. Parlare di sicurezza significa dunque anche analizzarne le organizzazioni, che agiscono e prendono decisioni in base alla loro bussola culturale che, nella prassi, vengono messe in atto dai lavoratori. Ad esempio, nelle organizzazioni aziendali, l’esistenza e la diffusione della cultura della sicurezza, è riconoscibile quando in esse:
L’astrazione del concetto di cultura della sicurezza crea un alibi per pericolose intercapedini che prestano il fianco agli infortuni e alle più subdole malattie professionali. La dimensione sociale va considerata come parte protagonista della sicurezza. Può essere parte vulnerabile o parte che, al contrario, riesce a rinforzare l’impianto prevenzionistico.
Senza la costruzione di una base culturale della prevenzione e della sicurezza condivisa, senza retorica, qualsiasi tentativo è inesorabilmente destinato al fallimento. Cultura della sicurezza significa ottenere risultati significativi, cambiamenti permanenti; significa incidere anche sulla mentalità e nelle pratiche dell’organizzazione e dei singoli che operano in quel sistema.
Quindi, una cultura della sicurezza veramente efficace in un’organizzazione aziendale, è quella caratterizzata dall’avere un management che esercita una leadership efficace nell’azione per la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro e, nello stesso tempo, sviluppa pratiche volte a coinvolgere direttamente il personale sia nelle varie attività di gestione che nell’applicazione puntuale delle regole e delle procedure.
Una cosa è certa, bisogna agire! Non è più eticamente tollerabile rimanere alla finestra a guardare il succedersi di quelli che sembrano essere infortuni fotocopia, ovvero con dinamiche infortunistiche simili, nell’attesa che si diffonda cultura della sicurezza con le istituzioni e i metodi che sono stati sviluppati fino ad ora. È necessario trovare nuove strade per stimolare il cambiamento, intervenire sul disegno delle politiche, mettere in campo azioni concrete che, come costellazioni, possano realmente orientare la rotta dell’agire di tutti gli stakeholders.
Quali potrebbero essere gli interventi da mettere in campo? Avremo modo di parlarne in un prossimo articolo.
AiFOS - Associazione Italiana Formatori ed Operatori della Sicurezza sul Lavoro
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