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Analisi e riflessioni di un testimone. A cura di Nunzio Leone: avvocato, giuslavorista e formatore in ambito di salute e sicurezza sul lavoro
![]() Il ministro del lavoro Giacomo Brodolini, padre dello Statuto dei Lavoratori |
Uno dei libri che ha accompagnato il mio percorso di crescita sociale e professionale è quello scritto dal giornalista Emanuele Stolfi dal titolo “Da una parte sola - Storia politica dello Statuto dei lavoratori”.
Ho voluto rileggere alcune pagine di quel libro oggi, quando la legge n.300 del 20 maggio 1970 “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”, diventata famosa come Statuto dei lavoratori, traguarda il suo primo mezzo secolo di vita.
E la mia memoria è andata a quella notte di Natale del 1968 in cui il ministro del lavoro Giacomo Brodolini, parlando ai lavoratori della tipografia occupata Apollon, con la voce rigata da un male che lo portò alla morte, pronunciò, anzi scolpì una profetica espressione “ un ministro socialista sta da una parte sola, quella degli operai" e annunciò la imminente approvazione dello Statuto dei lavoratori.
E poi gli anni del mio ingresso all’Università di Bari, facoltà di giurisprudenza, dove dal 1960, insegnava Diritto del lavoro il prof. Gino Giugni, ricordato come il "padre" dello Statuto dei lavoratori. Ebbene nel 1969, il ministro Brodolini istituì una Commissione nazionale con l'incarico di stendere una bozza dello Statuto dei diritti dei lavoratori, a capo della quale volle Gino Giugni.
Lo Statuto consentì l’ingresso della Costituzione italiana nelle fabbriche, nel periodo dell'autunno caldo e della nascita della lotta armata. E Giugni ricordò quel tempo con affermazioni poderose”. Fu un momento eccezionale, forse l'unico nella storia del diritto in Italia: era la prima volta che i giuristi non si limitavano a svolgere il loro ufficio di "segretari del Principe", da tecnici al servizio dell'istituzione, ma riuscivano ad operare come autentici specialisti della razionalizzazione sociale, elaborando una proposta politica del diritto»
Il ministro Brodolini non portò a compimento l’opera dello Statuto e dopo la sua morte, il suo successore Donat Cattin firmò il testo della legge. Lo Statuto dei lavoratori costituisce senza alcuna ombra di dubbio la fonte normativa più importante e preziosa in materia di lavoro dopo la Costituzione, quasi a voler dare le gambe a quei principi di rango costituzionale.
Già il grande sindacalista pugliese Giuseppe Di Vittorio, nel congresso della CGIL di Napoli del novembre 1952, aveva sollecitato una legge di tale tenore.
Cioè, in altri termini di voler proteggere, attraverso lo strumento legislativo, (andando al di là del contrattualismo cislino) il lavoratore come parte più debole del rapporto di lavoro, nella tradizionale linea di sviluppo del diritto del lavoro, permeata dall’esigenza di salvaguardare la pace sociale e l’ordinato perseguimento dell’unitario fine produttivo dell’organizzazione imprenditoriale.
La legge 300/70 si snoda lungo 6 titoli, espressive, nell’ordine, di norme concernenti la libertà e dignità dei lavoratori (art. 1-13), la libertà sindacale (art. 14-18), l’attività sindacale (art. 19-27), disposizioni varie e generali (art. 28-32), il collocamento (art. 33-34), le disposizioni finali e penali (art. 35-41): norme quindi che da un lato si rivolgono alla tutela del lavoratore nel rapporto di lavoro e, dall’altro, sostengono l’organizzazione e l’attività del sindacato nel contesto aziendale.
Come formatori per la sicurezza facciamo costantemente riferimento all’art. 9 dello Statuto che la tutela del diritto delle rappresentanze sindacali a controllare l’applicazione aziendale delle norme dirette a tutelare la salute dei lavoratori e la loro integrità fisica (art. 9), la forma embrionale dell’RLS, la sentinella e il portavoce dei lavoratori.
In questi 50 anni lo Statuto ha imparato a conoscere significative modifiche legislative; alcune norme di rilievo sono state sottoposte a referendum abrogativo; ha atteso invano la sua ‘’rifondazione’’ nel contesto di uno Statuto dei lavori. È toccato poi al jobs act di cambiare alcune disposizioni divenute superate nel tempo: l’articolo 4 (Impianti audiovisivi) riferito ai controlli a distanza, messo in crisi dalle moderne tecnologie; l’articolo 13 (Mansioni del lavoratore) rendendo più flessibile lo ius variandi del datore di lavoro onde consentire una maggiore mobilità del personale nell’azienda che cambia. Infine, è mutato l’articolo 18 (Reintegrazione nel posto di lavoro) in tema di disciplina dei licenziamenti ingiustificati.
L’articolo 18, nella sua applicazione generale, è stato in gran parte novellato dalla legge n.92/2012. Inoltre, il d.lgs n.23 del 2015 ha introdotto una differente disciplina del licenziamento individuale (con alcuni riferimenti ai licenziamenti collettivi) a valere per i lavoratori dipendenti assunti con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.
Ma hanno pesato anche su alcuni cambiamenti dello Statuto gli esiti generati dai referendum abrogativi del 1995 riguardanti l’articolo 19 (Costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali) e l’articolo 36 (contributi sindacali), che hanno aperto alla pluralità dell’organizzazione sindacale che, la Costituzione rammenta all’art.39, è libera.
Ma con questo ricordo voglio accendere un faro sul ruolo che Gino Giugni seppe imprimere alla legge. Ricordo quando ci parlava del diritto all’assemblea come grande vittoria democratica e di come, avanti negli anni, mi interrogava chiedendo se la grande stagione dei diritti fosse scivolata nell’insidioso terreno dei privilegi. Egli fu innovativo, il suo pensiero autenticamente riformista suscitò perplessità a sinistra tanto che il Pci si astenne nel voto finale); eppure eravamo di fronte ad trattava di una legge che riconosceva dei diritti fondamentali ai lavoratori, ma lo faceva attraverso il sindacato con norme definite allora ‘’promozionali’’. Giugni ci ha insegnato l’ordinamento sindacale che diveniva un reale sistema di relazioni industriali che faceva base su di una legge che assicurava legittimità al principio del reciproco riconoscimento delle parti e la libertà di organizzazione.
E la stessa cultura riformista dei giuslavoristi dello Statuto è divenuta alfiere della necessità di aprire la discussione sulle regole fondamentali del lavoro nel momento in cui si evidenzia il cambiamento dei presupposti sui quali sono state costruite. Li aiuta la loro cultura pragmatica, la tensione ai risultati dell’azione pubblica e l’attenzione alla persona che lavora rifuggendo da ogni astratta idealizzazione del lavoro. Ne è testimonianza il Libro Bianco del 2001, il primo documento politico istituzionale che vuole andare la legge 300/70 (e delle successive integrazioni e modifiche) per sostituirla con un essenziale Statuto dei Lavori. In particolare, vi si riconosce la pluralità dei lavori con la fine progressiva delle produzioni seriali e il superamento della tradizionale dicotomia tra lavoro dipendente e indipendente perché ogni prestazione si va orientando a obiettivi e risultati. Oggi parlarne al tempo dello smart working, quella riflessione acquista una nuova ed attuale luce, nel senso di delineare un nucleo di diritti inderogabili e applicabili a tutti con rinvio, per tutto il resto, alla contrattazione, anche di prossimità. A cui si collega una significativa affermazione di un diritto promozionale alla occupabilità, che si sviluppa assicurando l’accesso di tutti verso opportunità di formazione spendibile ed efficace.
Oggi siamo alla digitalizzazione diffusa, all’intelligenza artificiale, alla robotizzazione spinta e dobbiamo adeguare situazioni nuove a diritti fondamentali. Possiamo riproporre uguali tutele rigide e difensive per tutte le prestazioni con il dichiarato scopo di difenderle dalle nuove insicurezze? Ritengo questo un sentiero impraticabile. Ripensare ai big data in maniera diversa, non solo tassi di occupazione, ma anche reddito annuo da lavori, conto corrente contributivo, conoscenze acquisite, prestazioni sociali complementari, composizione del nucleo familiare. Si tratta di andare oltre la periodica indagine Istat sul mercato del lavoro senza scivolare su complessi indicatori di un incodificabile stato di felicità.
È questo il nuovo compito che ci attende.
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