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Un contributo di Adele De Prisco, Consigliere Nazionale AiFOS esperta di processi formativi
“Mi sono ammalato. Non avrei mai immaginato potesse succedere, ma mi è accaduto. È arrivata la febbre e non scendeva. Poi, ad un certo punto, non riuscivo a respirare più”. È, questa, la testimonianza che Giuseppe Nordio, consulente e formatore, ha portato alla tavola rotonda dal titolo “Le esperienze dei soci AiFOS durante il lockdown”, tenutasi lo scorso 19 giugno in occasione della seconda giornata della Convention di AiFOS 2020.
“I miei familiari hanno contattato il nostro servizio sanitario, che, in quel momento, non mi ha preso in carico, dicendomi che se non avevo problemi respiratori - e a me sembrava di non averne - dovevo stare a casa per non sovraccaricare le strutture ospedaliere, già colme di pazienti. Fortunatamente, mi sono deciso a recarmi spontaneamente in ospedale, il Niguarda di Milano, dove mi hanno subito fatto fare una tac ai polmoni. Esito: doppia polmonite virale. Ho atteso i risultati del tampone e solo verso l’una di notte sono stato trasferito nel reparto destinato ai pazienti ammalati di Coronavirus. Si era “liberato” il posto letto per me. Io spero che si sia liberato poiché la persona che me lo ha lasciato sia stata dimessa, in quanto guarita, e non perché quella persona sia deceduta. Questa esperienza ha lasciato una profonda ferita dentro di me. Penso spesso a quelle persone che sono entrate in Ospedale come me, ma che, a differenza di quanto è accaduto a me, purtroppo ne sono uscite in una bara. Mi dispiace molto anche per i loro familiari. Hanno perso dei cari ai quali non hanno neppure potuto dare l’ultimo saluto, poiché sono stati loro resi in una urna cineraria. Questa è una cosa che bisognerebbe ricordare a chi, oggi, si comporta in maniera non corretta e non rispetta le regole di sicurezza e di protezione dal virus. Da RSPP sono sempre stato più concentrato sugli aspetti correlati alla produzione ed alla infortunistica. Questa esperienza mi ha molto sensibilizzato sull’igiene, specialmente in un mondo globalizzato come questo. Se le comunità sono aperte, anche i virus circolano molto velocemente. Bisogna fare molta attenzione. Sono consapevole del fatto che raccontare e condividere con altre persone questa mia esperienza sia molto utile per me. Mi aiuta a non trattenere dentro emozioni che, a lungo andare, possono diventare molto dolorose, se non espresse. Per fortuna che all’interno della struttura ospedaliera ci sono infermieri come Davide, che suppliscono alle carenze affettive che hai in quel momento, standoti vicino come se fossero familiari. Sono gentili ed attenti. E questo l’ho apprezzato tanto”.
Davide Crescenzio, socio AiFOS, istruttore nei corsi per lavori in quota è stato infermiere professionale dal 1990 al 2005 circa. Ha lavorato per 10 anni nel reparto di terapia intensiva pediatrica dell’Ospedale di Padova. Ha svolto anche un breve periodo di servizio in un centro ustioni. Gli sono sempre piaciute le esperienze “forti”. Poi, stanco e stressato da questo lavoro, si è licenziato.
“La prima cosa che ho pensato quando è esploso il disastro dovuto al Coronavirus è stata la condizione in cui si trovavano i miei ex colleghi in Ospedale”, ci racconta Davide durante la tavola rotonda. “È da sempre che il personale sanitario lavora sotto organico ed in arretrato di giorni di ferie. Si tratta di una categoria professionale che ha un’abnegazione speciale nei confronti del prossimo e dei pazienti. Non potevo lasciarli soli! Ho voluto fare la mia parte, dare loro una mano. Così ho deciso di inviare una mail alla Direzione Sanitaria dell’Ospedale di Padova e, a distanza di una settimana, sono stato assunto con un contratto di libero professionista. L’ho fatto per dovere civico e dovere di professionista: rimango sempre un infermiere professionale, anche se è da 15 anni che non pratico più questa professione. Non mi piace che si parli di eroismo, di guerra e di trincea quando si fa riferimento al nostro ruolo durante questa emergenza sanitaria. Siamo professionisti, preparati a svolgere il nostro lavoro e come tali vogliamo essere tutelati e riconosciuti.
Questa esperienza ha rappresentato per me un tuffo nel passato, un viaggio a ritroso negli anni. Inizialmente ho avuto paura di commettere degli errori, di fare del male a coloro che assistevo, di non essere più in grado di svolgere il mio ruolo di infermiere, di essermi arrugginito. Ho anche avuto paura di contrarre il virus. Ho affrontato i miei timori cercando di restare tranquillo, di riprendere confidenza con le procedure ospedaliere, stando sempre molto attento a quello che facevo, poiché svolgevo un lavoro pericoloso.
Vivo come un privilegio e come una grandissima opportunità il fatto di poter avere una concreta misura di quello che sta accadendo nella realtà ospedaliera. Inoltre, con il passare dei giorni, ho cominciato ad osservare questa situazione anche con gli occhi del formatore su salute e sicurezza, attività che svolgo, ormai, da quindici anni. Ne ho ricavato molti spunti di riflessione, non sempre positivi, ma che rappresentano per me uno stimolo a migliorarmi costantemente nel mio ruolo di istruttore e formatore. Ho osservato, infatti, moltissime mancanze. Una su tutte: gli operatori sanitari non hanno ricevuto un addestramento pratico all’utilizzo delle mascherine FFP2 e FFP3. Risultato: ognuno la indossa come gli pare! Inoltre, ho rilevato una mancanza di collegamento e di comunicazione tra chi è in corsia per lavorare e chi elabora le procedure di lavoro ed ha, poi, il compito di spiegarle al personale. I lavoratori, in questo modo, non si sentono adeguatamente presi in considerazione. Chi riceve la formazione deve, invece, sentirsi veramente al centro del processo di apprendimento. Deve essere considerato come persona, non semplicemente come qualcuno che arriva al corso, ascolta passivamente la lezione, mette una firma e se ne va. Cosa, questa, che ho visto accadere, purtroppo, spesso”.
“Molta teoria, tanta carta da produrre – aspetto, questo, che da sempre AiFOS avversa - molti formalismi e poche azioni concrete”. Ci racconta così la sua esperienza di RSPP di una regione italiana un Consigliere Nazionale AiFOS, consulente e formatore di cui preferiamo tacere il nome.
“Ecco alcuni dati sconcertanti relativi agli adempimenti di formazione: corsi antincendio e primo soccorso scaduti da anni; mai effettuata la formazione dei preposti; mai aggiornata la formazione dei RLS già in carica; solo parzialmente effettuata la formazione di base dei RLS di nuova nomina. La mia esperienza nell’Ente pubblico Regione è la seguente: hai il rischio, lo affronti, ma non lo risolvi. Prendi un po' di tempo. Vi faccio un esempio. Nel 2015 si rilevava un fattore di rischio in una delle strutture della Regione, la mancanza di strisce antiscivolo. Nessuno ha provveduto ad eliminare il pericolo apponendo adeguate strisce antiscivolo. Nel 2019 un operatore è caduto e si è fatto male. Oggi siamo arrivati alla fase in cui gli avvocati chiedono il risarcimento del danno per l’infortunio occorso. È necessario a mio avviso capire che la sicurezza non è un optional e che richiede interventi predisposti nel Documento di Valutazione dei Rischi e realizzati anche nella pratica. Come più spesso si fa nel settore privato. Io provengo dal comparto del petrolchimico: là dove si crea un problema di sicurezza, l’abitudine è quella di farsi carico del problema, analizzarlo e trovare la soluzione. Durante il periodo di lockdown ho lavorato 10 ore al giorno, quando necessario anche il sabato. Non sapendo cosa fare per proseguire lo svolgimento in sicurezza delle attività, le aziende mi chiedevano di avere delle indicazioni certe. A farla da padroni confusione e disorganizzazione! Da questo punto di vista, il lavoro svolto da AiFOS è stato molto importante, perché ha fornito linee guida da adattare alle situazioni pratiche che noi consulenti e formatori abbiamo dovuto gestire nel nostro lavoro di tutti i giorni. Ho dovuto spingere sull’acceleratore per tentare di fare le cose in tempi rapidi. Ci sono riuscito? Oserei dire che ci stiamo riuscendo, perché il lavoro ancora è in fieri. Mi devo occupare, insieme alle persone che lavorano con me, di 200 siti per la Regione (compreso l’uso di imbarcazioni per i controlli a mare e di elicotteri). Per quella parte di lavoratori e lavoratrici in smart working abbiamo predisposto le procedure per i rientri graduali al lavoro in sicurezza. Per tutti gli altri operatori - corpo forestale e protezione civile regionale - abbiamo definito le procedure perché il prosieguo in sicurezza della loro attività fosse garantito, contingentando gli accessi ad elicotteri e pick up, e garantendo l’utilizzo di adeguati dispositivi di protezione individuale, mascherine FFP2, in modo particolare per le attività di controllo come UPG e di coloro che sbarcano nei porti”.
“Forse anche a causa del fatto che, come ha detto il Consigliere Nazionale, di questo virus ne palano in tanti e troppo e spesso senza cognizione di causa, si è generata una grande mole di informazioni, per di più contrastanti e confuse”, ci dice Giuseppe Nordio. “Con il dannoso risultato che la popolazione si è stancata e si comporta come vuole. Un pasticcio! A mio avviso è giusto che ci siano le ripartenze, poiché la vita deve andare avanti. Ma non si possono non rispettare le regole di sicurezza. Si tratta di far maturare una sensibilità sociale, anche nei più giovani: osservare le regole vuol dire avere rispetto non solo per se stessi, ma anche per gli altri”.
“Sentirsi parte attiva e proattiva di una comunità vuole dire mettersi al servizio di chi ha bisogno con le proprie conoscenze e competenze di imprenditori e professionisti della sicurezza e della prevenzione”, sostengono Vincenzo Carlino e Carla Mammone, consulenti, formatori e soci storici della nostra Associazione. “Siamo stati contattati dal sindaco, dagli ospedali, dai medici di base, dai farmacisti, dagli infermieri della nostra città, Varese, alla disperata ricerca di mascherine, di guanti, di igienizzanti, di tute per il rischio biologico e di quanto potesse servire a proteggere il personale sanitario e la popolazione. Tutto era introvabile. C’era disperazione, ansia e paura. Ci siamo trovati davanti un mercato viziato, pieno di truffatori e di speculatori. Prodotti inqualificabili, privi di qualunque grado di affidabilità e dal prezzo esorbitante. Nessuna tutela o garanzia per coloro che acquistavano i dispositivi di protezione. Che fare? Abbiamo avuto un’idea: scendere in campo al servizio della comunità e realizzare una mascherina chirurgica che fosse innovativa, confortevole e sicura, dotata cioè di una adeguata barriera filtrante. In questo percorso di ricerca e di progettazione siamo partiti dagli utilizzatori. I primi prototipi li abbiamo, infatti, fatti testare ai medici di base e a coloro che erano sul campo in ospedale. Abbiamo, inoltre, realizzato un’applicazione per cellulare al fine di monitorare con continuità i suggerimenti da parte dei nostri utilizzatori sui parametri che ci interessava esaminare: il confort, la tenuta, la reazione allergica, l’antiappannamento degli occhiali. Abbiamo avviato la consultazione con un Ente di certificazione (IMQ) ed intrapreso la via della certificazione ISO 9001 e 13485 per i dispositivi medici. Ad oggi siamo in dirittura di arrivo per ottenere la marcatura CE presso il Ministero della Salute. Abbiamo creato, inoltre, un progetto editoriale con Rete Net Vision per un programma a cadenza settimanale o bimensile che si chiama “ed ora di’ la tua”, dove competenti esperti di settore si confrontano su tematiche attualissime, con uno sguardo al futuro e con la possibilità di dialogare con il pubblico. A nostro avviso, è con le persone e con la comunità che ci dobbiamo confrontare”.
“Io lavoro anche con l’Università di Varese, in quanto membro permanente istituzionale del comitato di indirizzo del corso di laurea in Ingegneria dell’ambiente e della sicurezza”, ci dice Carla Mammone. “Durante il lockdown, con il consiglio di istituto ed i docenti, abbiamo attivato un ciclo di 3 seminari sui sistemi di gestione integrati, sperimentando una modalità in videoconferenza con un’aula di circa 20 partecipanti. I feedback da parte degli studenti sono stati positivi”.
“Quella dei corsi in videoconferenza è stata un’esperienza molto sfidante anche per me e per tutto lo staff di colleghi e collaboratori che operano all’interno del nostro centro di formazione!”, ci racconta Carlo Griffon, consulente e formatore. “Avevamo molti corsi di formazione già programmati per i nostri clienti. La nostra esigenza è stata, quindi, quella di dare continuità al servizio formativo offerto a queste realtà, alcune delle quali non hanno mai smesso di lavorare durante il lockdown, poiché appartenenti a filiere produttive essenziali. Abbiamo ricostruito e riconvertito i nostri corsi in una modalità in videoconferenza, valutando preventivamente l’interesse degli utenti per questa modalità formativa, l’esistenza di presupporti giuridici per l’erogazione della formazione su salute e sicurezza in modalità a distanza, gli aspetti di natura tecnologica, correlati all’implementazione della piattaforma e-learning, e le competenze interne dei nostri formatori, che si sono resi disponibili ad aggiornare le loro abilità informatiche. Lo staff di AiFOS, che ringrazio, si è, infine, reso disponibile a testare la nostra piattaforma con risultati soddisfacenti! Abbiamo, così, cominciato ad erogare corsi per lavoratori, corsi di inglese, un corso modulo C per Rspp e un corso su tematiche ambientali. Abbiamo fatto tutto ciò che potevamo per rendere il più possibile interattivi i nostri corsi. Per i nostri clienti si è trattato di un’esperienza valutata in modo positivo, nonostante alcune perplessità iniziali, dovute soprattutto alle scarse competenze informatiche dei propri collaboratori. Attraverso la piattaforma che utilizziamo, però, i corsi possono essere fruiti anche tramite smartphone e questo ha fatto sì che potessero partecipare anche coloro i quali non possedevano un pc a casa. Per altri clienti, inoltre, la modalità in videoconferenza ha rappresentato un’occasione per riunire lavoratori di sedi dislocate sul territorio nazionale in un’unica aula virtuale, con conseguenti vantaggi di natura organizzativa ed economica. Anche i partecipanti hanno manifestato un buon grado di soddisfazione, soprattutto perché, nonostante la modalità virtuale, si è riuscito a creare un buon livello di interazione e di collaborazione tra tutti loro. Per i colleghi formatori si è trattato di rimettersi in discussione e di riprogettare l’attività formativa in funzione della modalità di erogazione dei corsi in videoconferenza. A supportarli anche l’attività dei nostri tutor, sempre a disposizione per risolvere le criticità di natura informatica”.
“Mi sono impegnata in prima persona, in qualità di rappresentante di classe in entrambe le scuole dei miei figli, di 12 e 15 anni, per creare una rete, un gioco di squadra tra famiglie, professori e studenti. I ragazzi si sono ritrovati improvvisamente isolati, distanziati, privi del gruppo di compagni di classe e di amici al quale sono legati. Abbiamo ottenuto ottimi risultati, promuovendo il talento dei nostri figli, nativi digitali, e le loro competenze informatiche, che hanno supplito anche a quelle, carenti, dei loro professori, spesso spaesati e non avvezzi all’uso dell’informatica e della moderna tecnologia. Abbiamo organizzato attività pomeridiane gratuite, quali teatro, musica, lettura animata, attività fisica. Tutto ciò mi ha stancata tantissimo! Ma sono felice di questi risultati, perché penso che dobbiamo ricominciare a guardare al futuro e che per farlo non siano sufficienti la nostra capacità di resilienza, la nostra responsabilità ed il nostro senso civico, ma siano necessarie anche una buona dose di creatività e di capacità di innovazione”, conclude Carla Mammone.
Un caloroso Grazie va a Carla, a Carlo, a Davide, a Giuseppe e a Vincenzo, che hanno voluto condividere con me e con tutti coloro che hanno preso parte alla Convention digitale di AiFOS 2020 le loro storie e le loro esperienze di vita e di lavoro durante il periodo di lockdown dovuto all’emergenza nel nostro Paese.
Le loro storie sono pertanto diventate le nostre storie.
Il clima di incertezza e di smarrimento generato dall’attuale situazione di emergenza, non solo sanitaria, ha messo e sta mettendo a dura prova i nostri processi decisionali e, più in generale, la capacità di individui ed imprese di essere resilienti. La resilienza è la capacità di far fronte alle difficoltà facendo leva sulle capacità adattative che consentono agli individui ed alle organizzazioni di rispondere ai cambiamenti in modo efficace. C’è un concetto che, a mio avviso, ha fatto da sfondo all’intero dibattito: quello della motivazione!
È per questo motivo che desidero concludere questo mio racconto, in forma di diario, della tavola rotonda che ho avuto il piacere e l’onere di moderare lo scorso 19 giugno con il contributo di Pietro Trabucchi, psicologo dello sport ed autore di Tecniche di resistenza interiore, un saggio edito da Mondadori nel 2014.
Nell’ultimo paragrafo del suo libro, Pietro Trabucchi scrive: “L’insegnamento finale che ho ricavato è che la concezione corrente di motivazione umana è inadeguata. Tendiamo a pensare che la motivazione sia sempre qualcosa che viene dall’esterno, che dipende dagli incentivi, dai così detti motivatori o dal fatto che siamo costretti da qualcosa o qualcuno.
È amaro constatare che, culturalmente, siamo poco propensi a coltivare la forma più potente di motivazione (quindi anche quella più resiliente) a cui abbiamo accesso: l’auto motivazione o motivazione intrinseca. Utilizziamo la motivazione intrinseca quando ricaviamo piacere dal sentirci capaci di fare qualcosa. Imparare, sentirsi competenti e capaci è così importante per la sopravvivenza della nostra specie che - quando risolviamo un problema o raggiungiamo un obiettivo che ci siamo dati da soli – il nostro cervello ci premia: attraverso l’evoluzione ha imparato a fornirci una scarica di dopamina. La dopamina attiva le aree prefrontali e, quindi, tutto il nostro patrimonio comportamentale della resilienza (concentrazione sull’obiettivo, perseveranza, volontà) viene messo a disposizione del nostro agire.
Il ragazzino che studia solo per paura di prendere un brutto voto, l’atleta che si allena per dovere, l’impiegato che sta in ufficio esclusivamente per la busta paga fanno molta fatica a rimanere ‘sul pezzo’ perché le aree prefrontali sono disattivate. La loro resilienza – nei confronti di quell’obiettivo che sentono come imposto – è infatti pari a zero! Alla prima occasione, con la prima scusa, pianteranno lì l’attività.
Quello che occorre, allora, è un cambio di prospettiva: non si può aspettare che sia l’attività in sé a motivarci! Si rischierebbe di aspettare all’infinito. Piuttosto, bisogna imparare a tenere presente il senso di sfida con se stessi, il piacere di sentirsi capaci in tutte le cose che si fanno.
Prendete l’esempio degli ultramaratoneti, che portano a conclusione gare massacranti, in condizioni di assoluto disagio. Spesso la gente non li capisce. ‘Sono matti!’ oppure ‘Che senso ha? Per cosa?’. In realtà, è chi pensa così a non capire un dato essenziale: il cervello di costoro, per impegnarsi in qualcosa, per accendersi, ha bisogno di continue ricompense o spinte esterne immediate. Ma questi elementi esterni non possono alimentare che fuochi di paglia: infatti, la loro motivazione è di breve durata, la loro resilienza ha sempre il fiato corto.
Inseguendo il piacere di sentirsi capaci, gli ultramaratoneti e tutti gli altri epigoni della sfida con se stessi – esploratori, alpinisti, imprenditori, scienziati, artisti – hanno insegnato al proprio cervello a riempirsi da solo di dopamina. La dopamina, a sua volta, attiva le aree prefrontali, che aiutano le persone a tenere duro, a rimanere concentrate sull’obiettivo, a non sentire la sofferenza. E, poiché costoro finiscono per sentirsi bravi in tutto questo, in un perfetto circolo virtuoso, sono sempre più motivati ad allenare la loro resilienza.
La caccia persistente – intesa come arte di imparare ad inseguire un obiettivo nonostante ostacoli e difficoltà – non è solo una nozione antropologica: è il paradigma dell’esistenza umana”.
È così che, Passo dopo passo, i nostri obiettivi sono raggiunti.
Buon proseguimento nel cammino a tutti noi.
AiFOS - Associazione Italiana Formatori ed Operatori della Sicurezza sul Lavoro
25123 Brescia, c/o CSMT Università degli Studi di Brescia - Via Branze, 45
Tel 030.6595031 - Fax 030.6595040 | C.F. 97341160154 - P. Iva 03042120984
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