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Tutti guardano al futuro con l'imminente Accordo Stato-Regioni e la ventilata revisione del T.U. 81. Andrea Gobbi - RSPP, RSGSSL/RSGA e HSE Manager di Industrie Riunite Odolesi IRO S.p.A. Acciaieria e ferriera di Odolo - guarda invece all'evoluzione della figura cardine della prevenzione in azienda
Il meteorite che sconvolse il “nostro” mondo cadde sulla (italica) terra il 27 novembre del 1994. In realtà era già stato avvistato qualche mese prima del suo arrivo, il 19 settembre dello stesso anno, ed i suoi effetti iniziarono a farsi sentire solo dopo il Capodanno del 1997. Non ebbe l’effetto catastrofico e distruttivo del meteorite che colpì il nostro pianeta 66 milioni di anni fa causando l’estinzione dei dinosauri e diede l’avvio all’evoluzione che portò alla vita attualmente conosciuta, ma quasi.
Il meteorite in questione si chiamava D.Lgs. 626/94 e portava con sé novità assolute, prima tra tutte, la necessità di organizzare ed implementare un sistema di gestione avente l’ambizioso obiettivo di “fare prevenzione” e diminuire l’allora impressionante fenomeno infortunistico. Questa attività, fino a quel momento, era basata sull’applicazione di rigide norme di stampo tecnico, la maggior parte delle quali vecchie di decenni, che venivano rispolverate quasi esclusivamente “ex-post” per stabilire le responsabilità di un evento infausto, quindi, quanto di più lontano dalla definizione di prevenzione (curioso che, ancora oggi, si legiferi senza tener conto di questa finalità).
La “626”, come venne amichevolmente rinominato il meteorite negli anni successivi, impose questo nuovo sistema prevenzionale ad ogni livello del tessuto produttivo e commerciale italiano, compreso quello delle microimprese, financo al bar sotto casa, obbligando a nominare nuove figure, a valutare i rischi ed a formare i propri lavoratori (o anche il proprio unico lavoratore). Inevitabilmente, questa rivoluzione copernicana, portò alle imprese la necessità di venire assistite da qualcuno che avesse almeno una vaga idea di come mettere in pratica ciò che chiedeva la “626”. Ciò portò, altrettanto inevitabilmente, all’avvento di una nuova professione, ancora oggi non riconosciuta da un Ordine o da un Albo, nata monca di requisiti di accesso e di percorsi qualificanti, priva addirittura di una nomea ufficiale, tanto che chi vi si dedicò, per analogia, venne definito il “consulente della sicurezza” (o più semplicemente, “quello della sicurezza”). Probabilmente questa incertezza etimologica, ma soprattutto quella professionale, fece proselitismo anche tra chi non aveva nemmeno quella vaga idea di cosa si doveva fare, creando ancora più confusione di quanta già non ve ne fosse.
I primi adempimenti cui le imprese dovettero far fronte furono la redazione del Documento di Valutazione dei Rischi e la nomina del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione. Tra l’altro, i “boomer” come me, ricorderanno che, in quegli anni, le evidenze di entrambe le attività, dovevano venire inviate per Raccomandata AR agli Enti preposti (eh sì, cari “millennials”, allora le PEC non esistevano e per collegarsi ad internet occorreva qualche minuto di suoni sfrigolanti emessi da modem collegati alla rete analogica della Telecom). Fortunatamente, questa disposizione venne abrogata di lì a poco per evitare la saturazione degli uffici pubblici con montagne di carta che nessuno avrebbe mai letto, diminuendo il pathos che la necessità di fornire le prove della propria buona fede poteva ingenerare.
La predisposizione del DVR, all’epoca, era considerato un male minore, si trattava semplicemente di mettere insieme (o meglio, di far mettere insieme a qualcuno) una “relazioncetta”. Si chiamava “quello della sicurezza” ed in un paio di giorni si riceveva il DVR, in genere costituito da check-list atte, più che valutare i rischi, a fornire la rispondenza dell’azienda alle varie norme vigenti ed applicabili (tra l’altro, normalmente, con esiti carenti). “Quelli della sicurezza” più sgamati, avevano già scaricato appositi software (chi si ricorda il “Parsifal”?), per la cui compilazione era necessario meno tempo di quello necessario a riavviare il PC dopo i molteplici crash di Windows 3.1. Inutile aggiungere che questi modelli erano lontani diversi anni luce da quello che intendiamo oggi per DVR. Inoltre, non dimentichiamocelo, la VR, all’epoca, poteva anche semplicemente venire autocertificata dal DL (ops! Un altro déjà-vu!), utilizzando un comodissimo modulino venduto per pochi centesimi presso qualsiasi centro Buffetti.
La nomina del RSPP, viceversa, ha imposto ai Datori di Lavoro un certo ragionamento, d'altronde non poteva essere “creato” con Windows 3.1, serviva una persona in carne ed ossa! La “626” era stata d’aiuto perché aveva previsto, nelle aziende più piccole, che lo stesso DL potesse auto incaricarsi di gestire la sicurezza della propria attività, peraltro senza necessità di alcuna competenza particolare. Così, in prima battuta, la maggior parte delle Raccomandate AR inviate agli Enti preposti, contenevano l’auto-nomina del DL/RSPP.
Nelle imprese più grandi, viceversa, il DL doveva trovare qualcuno “disposto” a ricoprire questo ruolo e che, possibilmente, non costituisse un aggravio di costi di bilancio. Fortunatamente per l’imprenditore, la “626”, anche in questo caso, non specificava quali competenze dovesse avere il RSPP, se non con una generica definizione di “capacità e requisiti adeguati” non meglio identificati. Quindi, spesso, i nomi che venivano riportati sulla Raccomandata AR furono, nei migliori dei casi, quelli di Responsabili di produzione o di Responsabili della manutenzione (chi meglio di loro conosceva l’azienda?), ma quando non andava così bene, erano quelli dell’addetto alla contabilità o della segretaria/centralinista/receptionist.
Nelle imprese più attente all’argomento (a dire il vero non molte allora), venne invece nominato “quello della sicurezza” che, con un modico aumento della parcella dovuta per la fornitura della “relazioncella” (leggi DVR/check-list), si proponeva di svolgere questo ruolo come RSPP esterno (terza ed ultima possibilità indicata dal nostro meteorite). L’alternativa del RSPP esterno fu molto gettonata anche di lì a breve, giusto un paio di settimane dopo l’entrata in vigore della “626”, quando, con un abile contropiede, furono stabiliti i requisiti formativi per il DL/RSPP: 16 micragnose ore di corso senza previsione di aggiornamento, tutto sommato un pegno nemmeno troppo pesante da pagare per mantenere l’auto-incarico appena formalizzato. Ma, evidentemente, l’indignazione a fronte di una così repentina presa in giro, fu tale che, molti DL, si rifiutarono comunque di frequentare il micragnoso corso e preferirono sopportare i costi di un RSPP esterno (e, non da meno, quello dell’invio di una seconda Raccomandata AR dopo solo qualche settimana dalla precedente).
Ma veniamo ai compiti di questi neo-RSPP (DL, interni o esterni che fossero): come tutta la “626”, anche il ruolo del nuovo soggetto non era così ben definito. O meglio, i compiti erano specificati e prevedevano, sinteticamente, la VR e l’individuazione delle conseguenti misure preventive e protettive, l’elaborazione di procedure di sicurezza, la proposizione di programmi di formazione e la partecipazione alle consultazioni periodiche, ovvero, più o meno, le stesse odierne funzioni. Il vero problema stava nel fatto che non esisteva alcuna indicazione su come svolgere tali compiti. Inoltre, c’era da considerare il contesto in cui i neo-RSPP, in particolare quelli esterni, andavano ad operare: nella maggior parte dei casi si trattava di aziende in cui la tematica della prevenzione era conosciuta pressappoco come la fisica quantistica, vere e proprie patrie del “abbiamo fatto sempre così” (“e non è mai successo niente”). Aziende in cui le osservazioni e le idee rivoluzionarie provenienti da una persona esterna, spesso giovane e inesperta, venivano digerite come la casӧla servita a Ferragosto. E gli RSPP interni? Come detto, nella maggior parte dei casi non erano per nulla qualificati, la SSL non era la loro attività principale ed i loro compiti venivano svolti, in realtà, da professionisti esterni che li supportavano. Questi RSPP, a causa del ruolo promiscuo e della loro ignoranza della materia, venivano ancor meno considerati di “quelli della sicurezza/RSPP esterni” e difficilmente potevano far valere il loro ruolo ed organizzare qualcosa che avesse almeno la parvenza del “fare prevenzione”.
In questo clima pionieristico, il nostro neo-RSPP (esterno o interno che fosse), si doveva muovere senza mappa e senza bussola, su di un terreno ignoto ed accidentato, evitando buche, coyote e serpenti a sonagli e sperando di non venire colpito dalle frecce degli indiani. Nella fattispecie, i pellerossa si materializzavano sotto forma di ispettori ATS (allora USSL), che benché ugualmente inesperti in materia, godevano del privilegio di poter utilizzare, appunto, delle armi, ovvero di sanzionare la malcapitata azienda per le carenze riscontrate e che, volenti o nolenti, in qualche modo, venivano addebitate al povero RSPP che non le aveva rilevate, non le aveva comunicate o, addirittura, non le aveva risolte. Nonostante il compito improbo, bisogna però riconoscere che, in quel periodo, vuoi per l’entusiasmo, vuoi per la buona volontà, la necessità di implementare una norma sconosciuta ha aguzzato l’ingegno degli RSPP ed ha prodotto un impegno concreto, che badava molto di più al sodo che alle carte (anche perché ce n’erano molte meno da predisporre). E l’effetto di questo impegno ha effettivamente portato ad una diminuzione generalizzata del fenomeno infortunistico. Certo, mi direte, è più facile arrivare alla sufficienza quando si parte da una media del “quattro”, mentre è molto più difficile arrivare al “nove” quando la media è già del “sette”, ma tant’è che il risultato ottenuto è stato concreto e misurabile.
Purtroppo, come spesso accade per le novità, in breve tempo questo effetto positivo venne meno, come dimostrato dai dati degli infortuni che splafonarono e che si arenarono sulle cifre ormai ben note, più o meno, da 25 anni. Non credo che questo triste risultato sia dovuto esclusivamente al business che è sorto intorno al cratere del meteorite, ma è indubbio che un progressivo “impoverimento” del mondo della consulenza e della formazione, vi abbia sicuramente contribuito. Non per questo sono da esimere da responsabilità tutti gli altri soggetti che ruotano attorno al cratere: il legislatore, la magistratura, gli ispettori, gli imprenditori, i sindacati e, non ultimi i lavoratori, ognuno dei quali ha ugualmente contribuito, ciascuno per propri demeriti, a fare in modo che non si raggiungessero, negli anni, i risultati che si intendevano conseguire con l’introduzione di queste nuove normative. Ricordiamolo anche in questa occasione: fare prevenzione è un lavoro di gruppo, fuori e dentro l’azienda.
Tra il 2003 ed il 2006, lo sciame meteorico portò ancora qualche frammento sulla terra, la cui caduta fu però localizzata sulle teste dei tanti RSPP che esercitavano questo ruolo in modo più o meno consapevole. Il legislatore, infatti, decise che era tempo di mettere ordine in questa nuova professione nata orfana, e pubblicò le norme con le quali stabilì le “regole di ingaggio” con le quali era possibile mantenere o conseguire i titoli necessari per essere nominato RSPP. A parte le conseguenze “commerciali” di questa operazione, a dire il vero piuttosto lievi, dato il transitorio era davvero di manica larga e consentiva ai più di mantenere il proprio incarico, quello che balzò subito all’occhio fu la possibilità, successivamente concretizzata da diverse sentenze definitive, che la figura del RSPP venisse professionalizzata e, in questo modo, responsabilizzata nei procedimenti giudiziari a seguito di infortuni sul lavoro, nel caso venisse rilevata la “colpa professionale” nello svolgimento dell’attività di RSPP. Il maggior cambiamento cui si assistette successivamente a quegli anni fu il drastico calo degli “RSPP per caso” (le receptionist e gli addetti alla contabilità nominati qualche anno prima). Probabilmente, grazie ai corsi di formazione integrativi ed a quelli di aggiornamento, si resero velocemente conto del pericolo che correvano, ed altrettanto rapidamente rinunciarono all’incarico che gli era piovuto addosso, costringendo i DL ad optare per altre figure. Sicuramente vennero incaricati nuovi RSPP esterni, ma le imprese più strutturate ed a maggior rischio iniziarono ad assumere RSPP interni specificatamente dedicati a questo ruolo.
Inutile dire che questo travaso portò, giocoforza, una maggior qualità nel lavoro degli RSPP, in particolare di coloro che svolgevano la propria attività con competenza, passione e dedizione, ma contestualmente spalancò ulteriormente la forbice con chi, viceversa, considerava la sicurezza un semplice business da cavalcare e continuò imperterrito nella sua attività di bassa lega, nonostante la possibilità (a dire il vero, comunque, piuttosto remota) di essere portato in tribunale. A questo proposito ricordo una chiacchierata con un UPG dell’ATS di Brescia (Ente con il quale mi pregio di avere un ottimo rapporto di stima e fiducia reciproca), che mi chiese: “Quante aziende segui come RSPP esterno?” - “Una ventina” risposi “altrimenti come sarebbe possibile seguirle in maniera adeguata?”. L’UPG sorrise e mi disse: “sai che c’è un tuo concorrente che ha più di 500 incarichi? Chiede poche centinaia di euro per farsi vedere una volta l’anno e non tutti gli anni. E così facendo, probabilmente, guadagna più di te!” (e come dargli torto?).
Di lì a poco sarebbe stato pubblicato il Testo Unico, quello di cui si parlava da anni, quello che, nelle previsioni del legislatore, doveva rappresentare un nuovo evento meteorico che avrebbe dato vita ad un nuovo modo di fare prevenzione: meno burocrazia, meno carta e più effettività. Chi già lavorava seriamente, aveva sperato davvero in una svolta epocale che gli avrebbe permesso di uscire un po’ più spesso dagli uffici per frequentare attivamente i reparti ed i cantieri, contribuendo positivamente ad una seconda inflazione del fenomeno infortunistico (altro obiettivo palesato del TU). Invece arrivò una vera e propria doccia fredda: il meteorite si rivelò poco più grande di un sassolino: la nuova norma venne elaborata in modo raffazzonato sotto la spinta emotiva dei drammatici fatti della Tyssen e di Molfetta e venne pubblicata in fretta e furia per sostenere la campagna elettorale dell’allora Governo in carica (con poca fortuna, aggiungerei). A dire il vero, qualcosa di buono il D.Lgs.81/08 lo portò, ma sostanzialmente si trattava di una norma gattopardesca, dove tutto sembrava cambiare per lasciare le cose come stavano. O addirittura le peggiorò: non solo non furono inseriti strumenti diversi con cui cercare di ridurre il numero di infortuni, ma non arrivò nemmeno la sperata semplificazione, anzi, anche a causa delle norme che progressivamente integrarono il TU (ovvero quelle delle lettere “s.m.i” che seguono il nome del decreto come la coda di una cometa), ingarbugliarono ulteriormente la già poca leggibilità di una tomo composto da 306 articoli e da 51 allegati, che sembrava nato durante un sabba, mescolando in un calderone (quasi) tutto lo scibile in materia di prevenzione dagli anni ’50 ad allora. Una valanga di adempimenti, documenti, moduli, comunicazioni, evidenze investì gli appena rigenerati RSPP che si trovarono ancor più sommersi di prima da quintali di carta da generare per ottemperare ai capricci di questo nuovo corso. L’attività da ufficio prendeva definitivamente il sopravvento su quella sul campo, obbligando gli RSPP ad un compito che sarebbe stato invidiato dai frati amanuensi e dai miniatori bizantini. Senza contare i numerosi punti della norma soggetti a libera interpretazione, che ancora oggi generano discussioni infinite. Discussioni, però, perlopiù basate sul sesso degli angeli, in cui la necessità di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori passa in secondo (o terzo) piano, solo dopo una data certa o una firma del tal soggetto sul tal documento.
La maggior parte dell’attività “amministrativa” affidata agli RSPP è sicuramente arrivata dopo il 2011, a seguito dell’entrata in vigore degli Accordi Stato Regione sulla formazione. Sono sicuro che questa affermazione troverà il supporto della pressoché totalità dei colleghi che si sono trovati a dover gestire le scadenze dei vari corsi di formazione di un certo numero di lavoratori che dispongono di varie qualifiche e competenze. Fortunatamente la tecnologia ci è venuta incontro fornendoci degli strumenti informatici che hanno via via sostituito i “mega fogli” compilati con Excel, con i quali, inevitabilmente, abbiamo tutti fatto i conti per affrontare questo ingrato compito. Restando in tema di formazione, questi accordi (compreso quello che doveva uscire il 7 novembre scorso e che, fortunatamente, non è stato pubblicato), non hanno certo dato valore aggiunto a quella che doveva essere un’attività destinata alla qualificazione ed alla crescita di consapevolezza nei lavoratori. Nulla sulla didattica, nulla sugli aspetti comunicativi, nulla che potesse in qualche modo cambiare atteggiamenti e comportamenti; solo durate, argomenti (triti e ritriti) e scadenze. Non per nulla, sul tema della formazione, si è sviluppato un mercato di corsi a basso costo (e di basso valore) e sono sorti i cosiddetti “attestatifici”. Quello che doveva essere un punto di svolta nel settore della prevenzione, sempre più orientata ai comportamenti, si è rivelata, invece, un’operazione fallimentare. Per questo ho scritto che il nuovo accordo, fortunatamente, non è stato pubblicato: “follia è fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati differenti” (Albert Einstein).
Tra i nuovi accordi merita una menzione speciale quello del 2016, che ha rivisto ancora una volta i requisiti professionali e formativi degli RSPP. L’accordo ha incredibilmente più che dimezzato le ore di aggiornamento richieste per mantenere la qualifica iniziale. Come scrissi nel mio precedente intervento pubblicato in questo giornale, trovo poco credibile pensare che ad un RSPP bastino frequentare un aggiornamento di sole otto ore l’anno per svolgere efficacemente il proprio compito. Specialmente se in quelle poche ore non si dedichi, oltre agli argomenti tecnici e normativi, ad acquisire capacità e strumenti nuovi e sempre più necessari: la leadership, la comunicazione e gli strumenti per il cambiamento. Come non è pensabile che le attività formative non comprendano il confronto con i colleghi e gli scambi delle relative esperienze. A questo proposito, l’avvento della comunicazione globale e dei social media, ha positivamente contribuito far incontrare gli RSPP, a creare una rete di rapporti e di informazioni ed a far circolare in modo più efficace ed efficiente le proposte, le idee e le esperienze: “se tu hai una mela ed io ho una mela e ce le scambiamo, allora tu ed io abbiamo sempre una mela per uno. Ma se tu hai un'idea ed io ho un'idea e ce le scambiamo, allora abbiamo entrambi due idee” (George Bernard Shaw).
In questo quadro piuttosto deprimente, si sono trascinati per inerzia gli anni, senza che nessun guizzo di ingegno fosse in grado di modificare il perdurare di questa situazione statica fino al 2020, quando arrivò, inaspettato e devastante, uno tsunami che colpì, trasversalmente, ogni ambito della nostra vita. Tutto si fermò, sospeso in un’atmosfera irreale, di fronte ad un nuovo ed invisibile nemico mortale. Lo spirito di sopravvivenza dell’uomo, la sua caparbia e la sua inventiva, fecero fronte a questo nemico e vennero sfoderate le armi per eliminarlo. C’erano Enti ed imprese che non potevano fermarsi, così si trovarono le contromisure per garantire il loro funzionamento e per tutelare i lavoratori che dovevano operarvi. E a chi toccò il compito di prevenire l’infezione sui luoghi di lavoro? Ovviamente agli RSPP, che erano già depositari di questa attività, che già vegliavano sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori. Così la figura del RSPP conobbe il suo momento di gloria: il sabato sera davanti al TG per sentire le nuove disposizioni prevenzionali (i famigerati “dipicimemme”), la domenica ad elaborarle in procedure ed istruzioni ed il lunedì, con l’autocertificazione in mano, in auto a percorrere strade deserte per raggiungere le aziende e renderle operative. Oltre a controllare i certificati di mascherine arrivate con i container dalla Cina, a formare i lavoratori su come comportarsi per non contrarre il virus, ad affiggere ovunque la segnaletica informativa, a gestire le temperature, gli isolamenti, le quarantene ed i rientri… Mille attività in un clima di massima tensione che portarono lei, la prevenzione, al primo posto delle attenzioni di tutti. Che mostrarono la necessità di lavorare insieme per raggiungere un obiettivo. Che insegnarono l’indispensabile rispetto delle regole. Che evidenziarono come semplici disposizioni facilmente applicabili fossero più efficaci di pagine e pagine di leggi e di quintali di carta. Peccato che questi preziosi insegnamenti non siano stati utilizzati per cambiare le modalità di gestione della SSL negli anni a venire!
Così siamo giunti ai giorni nostri. Oggi vedo un certo fermento nel mondo del lavoro per quanto riguarda la richiesta dei profili di RSPP ed ASPP. Io stesso, benché “diversamente giovane”, quando nel 2021 decisi di abbandonare il mondo della consulenza per dedicarmi alla prevenzione operando dall’interno, non ho fatto alcuna fatica a trovare occupazione e, addirittura, a poter scegliere in che azienda lavorare. Sono sempre più numerose le aziende strutturate che decidono di dotarsi di questa figura o di ampliare il proprio ufficio sicurezza perché convinte che la prevenzione si debba costruire giorno dopo giorno, dedicandovi tempo e costanza. Allo stesso modo, per servire al meglio le imprese meno strutturate che non hanno le risorse per assumere una figura interna, i servizi degli RSPP esterni si sono adattati a questa richiesta, prevedendo una presenza più frequente e dando continuità ai nominativi degli incaricati. Certo, non tutte le imprese possono assumere a tempo pieno un RSPP, come non tutti i DL che assumono un RSPP sono pronti a questo passo, ma è innegabile che la tendenza sia ormai questa. Come è innegabile che esistano ancora “sacche di resistenza” in cui consulenti e formatori low-cost sono ricercati da imprese che non valutano correttamente le competenze necessarie per svolgere questo delicato lavoro. Ma è indubbio stia maturando la consapevolezza che per fare prevenzione non è sufficiente un impegno di qualche ora l’anno e che le ore di consulenza da parte di persone preparate non possano costare due soldi. Sicuramente ci vorrà ancora tempo e, aggiungerei, sarebbe necessario che gli operatori del settore chiedessero il giusto riconoscimento dei loro studi e della loro esperienza, evitando di svendere le proprie professionalità, isolando in questo modo chi lucra sul loro lavoro, scavando tra queste realtà e chi lavora seriamente, un canyon sempre più largo e profondo.
Quello che invece servirebbe davvero, purtroppo, non sembra ancora esser stato recepito da chi legifera in materia. O, perlomeno, così pare dai contenuti degli ultimi provvedimenti emanati (uno tra tutti, la patente a crediti). Sarebbe necessaria, come detto, una semplificazione, soprattutto per le PMI e per le microimprese, che risultano investite dagli stessi adempimenti riservati alle imprese di dimensioni (e con risorse) maggiori. Andrebbe anche diversificato il carico degli obblighi in funzione del settore di appartenenza o dell’attività svolta. Sarebbe necessario coinvolgere nella responsabilità anche i lavoratori, come peraltro sarebbe già previsto dal TU, perlomeno nei casi in cui è evidente che i loro comportamenti sono causa o concausa del loro infortunio. I lavoratori andrebbero elevati dall’attale ruolo di “soggetto debole” fornendo loro dei diritti immediatamente e facilmente esigibili. Sarebbe necessario modificare radicalmente l’organizzazione ed il modo di fare formazione, che per risultare efficace non può essere completamente delegata e standardizzata. Sarebbe necessario uscire da un sistema esclusivamente repressivo e sanzionatorio: se si vuole che le imprese investano in sicurezza, bisogna dare loro qualcosa in cambio, e non intendo esclusivamente un riconoscimento economico. Tutto ciò è ben noto a chi opera in scienza e coscienza e che, limitatamente alle proprie capacità, districandosi tra i vincoli legislativi che, comunque, devono essere rispettati, lo traduce nel suo lavoro quotidiano. Noto con piacere che, negli ultimi anni, si sta aprendo un confronto costruttivo tra tutte le parti che interagiscono nel settore SSL, grazie anche alle associazioni che rappresentano RSPP, tecnici e formatori. Purtroppo, i tempi del legislatore sono inesorabilmente più lenti di quelli delle attività produttive ed i risultati di questo lavoro, ancora, non sono quelli auspicati. Ma, almeno, il sasso (che è poi un piccolo meteorite) è stato lanciato.
Spero di non aver tediato troppo soprattutto chi, come me, quegli anni li ha vissuti in prima persona. Anzi, spero di aver strappato loro un sorriso nel ripercorrere i ricordi di “come eravamo”. Trent’anni sono tanti, di passi ne sono stati fatti (in avanti ma, purtroppo, anche all’indietro). Mi auguro, specialmente per le future generazioni di RSPP, non passi un tempo altrettanto lungo per trovare una strada diversa e più efficace per fare vera prevenzione e, in questo modo, ridurre almeno una certa percentuale degli infortuni sul lavoro (non ho mai creduto a chi parla di “infortuni zero”). Da parte di chi lavora “dal basso”, le idee, le soluzioni e le proposte esistono. È necessario che le stesse vengano ascoltate da chi lavora “dall’alto”, in modo inneschino l’uscita dall’orbita di un nuovo meteorite, capace di portare un vero cambiamento e dei risultati finalmente tangibili.
AiFOS - Associazione Italiana Formatori ed Operatori della Sicurezza sul Lavoro
25123 Brescia, c/o CSMT Università degli Studi di Brescia - Via Branze, 45
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