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Intervento di Rita Somma, consulente H&S, sociologa del lavoro, consigliere nazionale AiFOS, e Antonio Zuliani, psicologo psicoterapeuta, consulente H&S
Soft skills o non-technical skills contro hard skills o technical skills. Locuzioni già ampiamente utilizzate nell’area della human resources, entrate quindi di diritto anche nel lessico manageriale e dell'economia aziendale per indicare la valorizzazione del capitale umano, ovvero della forza lavoro. Locuzioni così “comuni” che rischiano di far perdere la loro sostanziale differenza. Vediamo, quindi, di avviare un approfondimento che metta ogni organizzazione in condizione di trarre dalla loro applicazione il miglior risultato atteso.
Le Soft skills o Non-technical skills comprendono competenze cosiddette trasversali, mentre le hard skills o technical skills sono competenze tecniche specifiche per le singole professioni. Anche se la distinzione non è mai così netta e definita, ma resta sempre piuttosto sfumata. Più recentemente questi anglicismi sono approdati anche nel mondo della sicurezza sul lavoro. Questo ha determinato che, accanto alle già pressoché definite e note competente tecniche, ci si è ritrovati a disquisire di più impercettibili e meno conosciute competenze trasversali, non sempre con cognizione di causa in verità. Infatti, troppo spesso, vengono catalogate in modo semplicistico come hard skills le funzioni lavorative di cui sappiamo molto e come soft skills quelle di cui sappiamo molto meno. Ed è proprio quest’ultima sfera, più nascosta, più frastagliata, meno categorizzabile, meno misurabile, meno studiata, che è andata a costituire un anello controverso dell’impianto prevenzionistico. Ecco allora che c’é chi le acclama come punto nodale, volano del cambiamento su cui puntare per arginare il fenomeno infortunistico e migliorare le pratiche di sicurezza, chi le guarda con smarrimento e chi, ancora, con scetticismo e diffidenza, in particolare i fautori dell’approccio tecno-centrico. Proviamo a fare chiarezza.
Soft skills e Non-technical skills non sono concetti nuovi. Soft skills è stato mutuato dall'esercito degli Stati Uniti ;alla fine del 1960, che ne ha coniato il termine per indicare quelle competenze che non hanno particolari relazioni con le macchine. Non-technical skills deriva invece dal settore aeronautico che, ancora una volta, fa da apripista ed ha inserito da tempo nei programmi di formazione, addestramento e valutazione della gestione delle risorse dell'equipaggio delle compagnie aeree lo sviluppo di abilità trasversali che investono la sfera psico-sociale. La letteratura scientifica traduce infatti tali competenze in abilità relazionali, comportamentali e cognitive e altri specifici tratti correlati anche ad aspetti della personalità. E così, non è difficile immaginare come abilità quali: capacità di comunicazione, di ascolto, di lavorare in squadra, di prendere decisioni appropriate, di gestire i conflitti e gli errori ma anche il buon senso, la consapevolezza situazionale, la gestione dello stress e del carico di lavoro, l’attenzione, la vigilanza, la fiducia, etc., se traslate in ambito sicurezza, possano essere determinanti, al pari di quelle tecniche, sulla performance prevenzionistica. Questa attenzione può arrivare a modificare fortemente l'ambiente di lavoro, contribuendo al miglioramento della percezione dei rischi, della consapevolezza nonché del grado di auto-proteggersi, auto-organizzarsi e proteggere gli altri. Operazioni diverse possono richiedere competenze trasversali particolari differenti. Ad esempio, il lavoro di squadra e la comunicazione possono essere più importanti nei processi di lavoro che si basano su più persone, mentre la consapevolezza della situazione e il processo decisionale possono essere più importanti in operazioni di monitoraggio e coordinamento.
Le competenze non tecniche, come le abilità tecniche, si possono imparare e vanno pertanto intese come abilità apprese e condivise nell’organizzazione, da rafforzare costantemente, in prospettiva dinamica, attraverso la pianificazione di interventi efficaci, mirati e misurabili atti a potenziare quelle capacità trasversali che aumentano le condizioni di sicurezza. Competenze che oggi, al contrario, risultano spesso poco conosciute o comunque sottovalutate e trascurate in pressoché tutti i settori, nonostante i dati statistici riportino proprio che gran parte degli incidenti siano la conseguenza di comportamenti e pertanto, competenze così intese, potrebbero effettivamente rappresentare la chiave di volta per dare un contributo significativo alla gestione dell'errore umano. Una cosa è certa: è necessario parlarne con cognizione ma anche con semplicità, per rendere questi concetti accessibili alle organizzazioni ed ai lavoratori e non farle diventare un’altra chimera che, come la cultura della sicurezza, risulta inafferrabile. Di questo le discipline umanistiche ne hanno grande responsabilità, in particolare psicologia e sociologia che, con il loro corpus teorico organico e il bagaglio di nozioni scientificamente ormai consolidate, possono prendersi il posto da protagoniste che gli spetta e, collaborando con le discipline tecniche, possono indirizzare verso la giusta prospettiva della questione.
L’utilizzo di termini in lingua inglese, così come la semantica lessicale, di certo non contribuiscono ad avvicinare alla questione ed a focalizzare sull’importanza di tali competenze. Ogni parola non è infatti mai neutrale, neanche in ambito prevenzionistico. Soft skills e hard skills, tradotte letteralmente diventano così abilità morbide e dure. Da una parte il termine soft evoca dunque il concetto di “delicato”, soffice, liquido, intangibile, mentre quello hard evoca quello di duro, pesante, che richiede molto impegno, finendo per evocare così abilità messe su piani di importanza differenti. In realtà di soft invece tali competenze non hanno proprio nulla, sono infatti più hard di quello che sembra. Più pregnante risulta invece l’altro termine utilizzato Non technical skills, ovvero competenze non tecniche ma, anche in questo caso, sembra permanere la natura evanescente e un sottinteso giudizio di valore escludente per assenza di denominazione propria. Pur non potendolo invocare come alibi, è chiaro che anche il problema della definizione non è una questione di lana caprina, ma andrebbe risolta.
Giunti fin qui risulta lampante che, per il miglioramento delle condizioni di sicurezza, le competenze psico-sociali in ambito lavorativo non possono essere ignorate. Competenze che non costituiscono la panacea di tutti i mali, ma sono senz’altro un punto di partenza per poter operare in sicurezza. Tutte le organizzazioni dovrebbero definire preventivamente quali abilità tecniche e non tecniche siano necessarie per svolgere in sicurezza quella determinata operazione o attività, anche in relazione alla complessità dei lavori che dovranno essere svolti. Tali competenze hanno significative interconnessioni tra loro e possono influenzarsi fortemente a vicenda, andando a rappresentare la doppia faccia di una stessa medaglia, che non può così essere scissa. L’adeguatezza per operare in sicurezza dovrebbe pertanto considerare entrambi gli ambiti. Sarebbe riduttivo valutarli separatamente. In ogni modo è essenziale disporre di un parametro di riferimento per effettuare anche le valutazioni delle competenze non tecniche.
Nella convinzione che la sicurezza si realizzi nell’interconnessione tra aspetti tecnici, organizzativi e comportamentali, vediamo un’esemplificazione che evidenzia l’apporto sostanziale delle Non technical skills per migliorare gli standard di sicurezza sul lavoro, fondamentale in particolare nello svolgimento di mansioni lavorative ad alto rischio e complessità, dove il livello di affidabilità del sistema non può non tenere conto di quei meccanismi che, a livello umano, spesso inconsciamente, innescano la catena di eventi che porta all’incidente. La solida nervatura scientifica ha infatti evidenziato come alcuni meccanismi di risposta siano caratterizzanti nel funzionamento mentale e, pertanto, non possono non essere considerati. Ad esempio, Kahneman (2011) ha messo in evidenza come la mente umana sia caratterizzata da due sistemi di pensiero: quello istintivo e rapido (sistema 1) e quello razionale e lento (sistema 2). Il comportamento decisionale agisce nel senso di privilegiare le azioni automatiche di tipo 1, che possono essere messe in pratica utilizzando la minor energia mentale possibile. Una sorta di pensiero veloce e intuitivo, che utilizza le informazioni e le azioni apprese positivamente dall’esperienza. Solo a fronte di situazioni nuove la persona è spinta a mettere in campo invece un pensiero più complesso e faticoso. Tutto questo spesso non avviene immediatamente perché proprio le abitudini tendono a non far “vedere” gli elementi di diversità da quanto atteso e, questo, può essere l’anticamera di un incidente, perché si reagisce in ritardo a qualche cosa di inatteso.
In questa direzione non possiamo fare affidamento solo sulla memoria di tanti gesti e/o azioni indicate dalle procedure: in questo caso parliamo di memoria implicita. La memoria garantisce la continuità della nostra vita. Ci fornisce un quadro coerente del passato che colloca in prospettiva le esperienze in corso, un quadro che può non essere razionale o accurato, ma che comunque permane. Senza la forza agglomerante della memoria, le esperienze sarebbero scisse in tanti frammenti quanti sono i momenti della vita (Kandel, 2007).
È chiaro dunque quanto risulta determinante la capacità di avere una buona consapevolezza della situazione e, di conseguenza, del saper innestare la giusta reazione, anche quando la situazione ambientale è diversa da quella attesa. Questa capacità però non deve essere intesa come capacità innata del soggetto, ma come abilità da sviluppare attraverso formazione ed addestramento, che possano favorire il riconoscimento di segnali che suggeriscano i comportamenti più idonei per affrontare la situazione. In questa direzione autori come Thaler e Sunstein (2008) hanno sostenuto la necessità di attivare delle “spinte gentili” verso i comportamenti più idonei, anche lavorando nel continuo adeguamento del default. La progettazione del default, seguendo la logica dell’architettura delle scelte proposta dagli autori citati, punta a integrare continuamente proprio gli aspetti tecnici, organizzativi e comportamentali insiti in ogni lavoro al fine di renderli idonei ed efficaci non solo alla produzione, ma anche alla sicurezza. Questa azione passa anche attraverso un corretto processo di comunicazione, che deve accompagnare la persona a comprendere e a mettere in atto i comportamenti di sicurezza seguendo il più semplice ed efficace processo di pensiero, la valorizzazione del lavoro in team, l’analisi dei mancati incidenti o near miss, la leadership positiva ma, di questi aspetti, avremo modo di parlarne in un prossimo articolo.
Bibliografia di riferimento
Dekker S. (2008), Sicurezza e pensiero sistemico, Hirelia Edizioni, Milano, 2012.
Flin R., O’Connor P. & Crichton M. (2008), Safety at The share end - A guide to Non-Technical Skill, Hirelia Edizioni, Milano, 2010.
Gandolfi A. (2012), Decidere nell’incertezza, Casagrande Edizioni, 2012.
Kahneman D. (2011), Pensieri lenti e veloci, Mondadori Editore, Milano, 2012.
Lehrer J. (2009), Come decidiamo, Codice Edizioni, Torino, 2009.
Motterlini M. (2008), Trappole mentali, Rizzoli, Milano, 2008.
Nassim N.T. (2007), Il cigno nero, Saggiatore Edizioni, Milano, 2008. Reason J. (1990), L’errore umano, EPC editore, Roma, 2014.
Thaler R.H. & Sunstein C.S. (2008), Nudge – La spinta gentile, Feltrinelli, Milano, 2009.
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