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Un articolo di Marco Michelli, giornalista freelance esperto di social media, sicurezza sul lavoro e politiche della prevenzione, vincitore nel 2015 del Premio Gino Bortollon
Solamente quattro anni fa un mio articolo sul technostress (o tecnostress usando il corrispettivo italiano) vinceva il premio intitolato alla memoria di Gino Bortollon. La motivazione addotta era collegata al fatto che affrontasse “una tematica nuova e non ancora ben conosciuta ed approfondita”. Ebbene, in meno di un lustro, la cosiddetta sindrome della generazione always on, quella sempre connessa, è divenuta una delle problematiche più rilevanti collegate al benessere lavorativo.
Con il termine technostress si vuole indicare una sindrome la cui causa può essere appunto individuata, in prima approssimazione, nell’uso costante, simultaneo ed eccessivo di tecnologie dell’informazione e di apparecchi informatici digitali in situazione di mobilità e non-mobilità.
Facendo riferimento al technostress si parla, dunque, di persone sempre raggiungibili: la caratteristica di questa connessione perenne è la possibilità di svolgere la propria attività indipendentemente dal luogo e dal momento. Questo perché, grazie agli strumenti messi a disposizione dalla tecnologia, il valore di spazio e tempo si relativizza, poiché utilizzandoli il lavoratore può continuare a lavorare al di là dei confini dell’ufficio e ben oltre i tempi destinati contrattualmente a tale obiettivo. Tuttavia, a dispetto di una (ipotetica) migliore produttività, la continua reperibilità del lavoratore - e la conseguente sua impossibilità a sottrarsi ai contatti - lo pongono nella condizione di non staccare mai o comunque di essere sempre reperibile, dando corso a situazioni che contribuiscono a generare stress.
Già nel 2005 un’indagine tedesca condotta dalla psicologa tedesca Sabine Sonnentag indicava come il rispondere alle e-mail aziendali anche prima di dormire, così come fare telefonate di lavoro nel fine settimana, oltre a minare il benessere psicofisico provocano, nel tempo, una minore efficienza.
Non a caso, il termine “sindrome” usato per denotare il fenomeno, rimanda a un insieme di sintomi di cui non sono ancora ben noti caratteristiche ed effetti, ma su cui i ricercatori di varie discipline hanno già cominciato a riflettere, dando corso sia ad indagini di natura conoscitiva (inchieste, sondaggi, ecc.), sia a ricerche di natura osservazionale.
A volte il technostress viene confuso con l’ansia tecnologica; per non cadere in questo errore è sufficiente tenere presente il fatto che gli effetti negativi che la tecnologia può avere sulla vita lavorativa delle persone si manifestano generalmente in rapporto ad attività ben precise - come programmare riunioni, redigere business plan, gestire scadenze che richiedono la preparazione di documenti condivisi, ecc. - e non in relazione a generiche paure di essere inadeguati rispetto all’uso delle tecnologie stesse.
In pratica, parlare di specifiche categorie è un errore: i problemi sono connessi con un uso inadeguato delle nuove tecnologie al punto, paradossalmente, da complicare e non da semplificare la conciliazione tra tempi di lavoro e tempi di vita; questo tipo di uso si sta allargando a tutti i settori lavorativi, senza contare le implicazioni a livello sociale e collegati ai rapporti familiari o alla difficoltà di crearsi dei momenti di svago. Dunque, se anche solo pochi anni fa il fenomeno si associava prevalentemente ai dirigenti e al personale che gestisce la comunicazione con l’esterno dell’azienda (e magari anche al personale del Servizio Prevenzione e Protezione, sempre a disposizione …), ossia quei ruoli che sono collegati h24 ad un ambiente di comunicazione immediata dal quale non si staccano, soprattutto mentalmente, in un mondo in cui 8 persone su 10 possiedono uno smartphone il technostress può riguardare l’intera popolazione: del resto capita molto spesso di vedere persino in spiaggia persone connesse, dedite ad intervenire ad una riunione di lavoro, magari durante le proprie ferie.
Ecco allora che questo “nuovo rischio professionale” quando colpisce, affligge non solo le persone sul piano fisico, psichico e relazionale, ma anche le imprese in ambito produttivo, organizzativo ed economico.
Recentemente poi la connotazione del fenomeno si è ampliata anche ai millenials, ed è suonato il campanello d’allarme proprio per le nuove generazioni: gli esperti della Società italiana di pediatria (Sip) nel ‘Position Statement 2019’ dedicato ai ragazzi di 11-17 anni e al loro rapporto con le tecnologie hanno rilevato che l’utilizzo di smartphone prima di dormire riduce la durata totale del sonno di ben 6 ore e mezzo durante la settimana scolastica. Una scarsa qualità del sonno "causa conseguenze negative nella vita dei ragazzi come stanchezza, depressione, problemi con l'alcool, disturbi ossessivo-compulsivi, abuso di sostanze, risultati scolastici scadenti", avvertono gli specialisti. Non solo. "Secondo evidenze scientifiche l'uso eccessivo di smartphone - a meno che non sia finalizzato a ricerche inerenti allo studio - può determinare un approccio superficiale all'approfondimento, una minore concentrazione e una maggiore tendenza alla distrazione, con conseguenti scarsi risultati scolastici". Mentre l'iperattività concentrata sugli smartphone è associata a una maggiore distrazione e disattenzione, che può persino mettere a rischio la vita. Per esempio, recenti dati dei Cdc (Centers for Disease Control and Prevention) mostrano che negli Stati Uniti nel 2018 c'è stato un aumento del 5% degli incidenti mortali che coinvolgono gli adolescenti: tra le cause, proprio un utilizzo improprio dello smartphone da parte dei ragazzi impegnati ad ascoltare musica, giocare o rispondere ai messaggi mentre camminavano o attraversavano la strada. “L'esempio dei genitori è fondamentale per i figli: gli adolescenti con genitori che solitamente parlano al telefono mentre guidano hanno maggiori probabilità di ripeterne i comportamenti", ammoniscono i pediatri.
Il nostro Paese solo da poco ha incominciato ad interessarsi alla problematica. Ciò si deve sia al fatto che non vi è ancora una materia legislativa specifica, ma anche perché le grandi aziende, nel contesto di crisi globalizzata, hanno lasciato sullo sfondo questi studi.
Una sentenza della Procura di Torino ha dichiarato che il technostress è una nuova malattia professionale e nel 2014 l’Inail, l’ha considerata una malattia professionale “non tabellata”.
Di fatto, per le loro caratteristiche i nuovi apparecchi tecnologici e digitali non si possono considerare propriamente attrezzature da lavoro come indicate nell’articolo 69 del D.Lgs 81/08, né sono assimilabili ai videoterminali.
Nonostante i rischi ad essi connessi non siano normati, resta l’obbligo del datore di lavoro a provvedere (anche per il tramite dei suoi collaboratori) alla valutazione dei rischi ed alla redazione del relativo documento (art. 17, comma 1, lett. a, del D.Lgs. n. 81/2008).
Inoltre, rimane fondamentale l’indicazione dell’art. 28, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2008, che prescrive di considerare “tutti i rischi”, ivi compresi quelli riguardanti “gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari”, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza, quelli connessi alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri Paesi, nonché quelli connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione di lavoro.
Cosa fare? In ambito di salute e sicurezza sul lavoro sarebbe dunque opportuno prepararsi in modo adeguato, perché le problematiche relative all’uso degli artefatti di nuova generazione costituiscono, per gran parte delle loro caratteristiche e delle conseguenze delle modalità d’uso sperimentabili, una novità quasi assoluta: da qui deriva la necessità per il datore di lavoro e per il Servizio di Prevenzione e Protezione che lo supporta, di “approntare una sorta di ‘mappa minimale’ per valutare con attenzione le situazioni che l’uso di tali artefatti generano, per decidere se sia il caso o meno di dotare i propri collaboratori di tali strumenti, preparandosi adeguatamente all’individuazione di criteri che guidino la decisione di adottare o meno tali artefatti”, come segnalano i docenti Carlo Galimberti e Francesco Bacchini. Inoltre, il SPP può collaborare a definire le “misure organizzative” in grado di contenere i rischi connessi all’uso dei device mobili, limitando l’esposizione dei soggetti a situazioni fonte di technostress. Ciò significa “saldare” la dimensione organizzativa con la predisposizione di misure di protezione.
In altre nazioni si stanno già impostando alcune soluzioni pratiche: si pensi ad esempio al caso della casa automobilistica tedesca VW dove, in base ad un accordo con i sindacati, trenta minuti dopo la fine dell’orario di lavoro i server interni all’azienda smettono di reindirizzare il traffico dati, ed in particolare le e-mail, riattivandosi soltanto trenta minuti prima dell’inizio della successiva giornata lavorativa; o ancora la Atos, azienda francese di Information Technology - preso atto che i dipendenti ricevono mediamente un centinaio di e-mail al giorno, di cui solo il 15% si dimostra necessario - ha deciso di bandire l’uso delle e-mail interne.
Ecco allora che sarebbe opportuno ripensare organizzazione e la divisione del lavoro per non vivere ogni attività aziendale come se fosse una perenne emergenza, situazione ormai diventata ‘la normalità’ in ogni settore, dove le cose vanno fatte ‘per ieri’.
Qualche anno fa fece scalpore uno spot televisivo di una compagnia telefonica nazionale. Riprendeva un testimonial d’eccezione - quel Leonardo Di Caprio all’epoca idolo dei teenager quale protagonista del pluripremiato film “Titanic” - disteso al sole in un prato incolto, circondato dalla natura. In questa atmosfera agreste e serena, dai colori rosa arancioni dell'alba e con minuscoli insetti che si lasciano perfino toccare, d’improvviso si sentiva la vibrazione di un cellulare e Di Caprio, solo per un attimo in dubbio diceva a se stesso: “Non ora”, restando a godersi l’atmosfera senza nemmeno guardare chi fosse a cercarlo. “La tecnologia è importante, ma anche tutto il resto” recitava lo slogan.
Eravamo nel 2000, ma a distanza di quasi venti anni lo spot firmato dal regista Chris Cunningham diventa più che mai attuale.
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