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“Se fai solo quello che sai fare, non sarai mai più di quello che sei ora” Maestro Shifu, in Kung fu panda. Un approfondimento a cura di Marzia Dazzi tratto da 78pagine.it
È innegabile che ognuno di noi, nel corso della propria vita, spenda moltissime energie per dare di sé un’immagine di forza, talvolta di invincibilità. Si inizia presto, da bambini, quando gli adulti intorno a noi ci dicono di non piangere di fronte alle avversità, di non mostrarci deboli ed è un processo che spesso non si arresta più. Ma il prezzo da pagare per indossare la maschera del supereroe, lo sappiamo tutti, è molto elevato. Si tratta di negare a se stessi la possibilità di essere autentici, di cercare di non tenere conto delle nostre emozioni, di non sentirci autorizzati ad esprimerle. In realtà, a questo proposito, i numerosi studi compiuti sull’intelligenza emotiva, fin dagli anni ’90, in particolare da Daniel Goleman testimoniano qualcosa di molto differente. Secondo queste ricerche la consapevolezza di sé, esprimere in modo adeguato le proprie emozioni, imparare ad utilizzarle per raggiungere i propri obiettivi e nella relazione con gli altri, sono ritenute competenze fondamentali, che fanno la differenza in ambito professionale e personale.
Come dire che essere se stessi ed esprimerlo in modo adeguato, fa la differenza in senso positivo e rende le persone più credibili ed efficaci.
Sono rimasta molto colpita da una frase che ho sentito dire da un’insegnante di scuola media, di grande esperienza. Qualcuno dei genitori le ha chiesto come vedeva i ragazzi oggi rispetto ai cicli di studio precedenti. Lei ha risposto “molto più fragili e con bassa tolleranza al fallimento. Possiamo ipotizzare che, in molti casi, le nuove generazioni non abbiano allenato sufficientemente la capacità di fallire e quindi siano poco capaci di imparare dall’errore e non abbiano sviluppato la resilienza sufficiente per riprendersi dalle avversità, che la vita inevitabilmente metterà loro nel cammino.
In effetti, stiamo assistendo ad un curioso paradosso. Se un lato si affermano e vengono divulgati concetti come resilienza e vulnerabilità nelle loro accezioni più positive, dall’altro lato, l’errore rimane un’onta da nascondere, alla quale si affiancano giustificazioni e sensi di colpa.
Eppure, sia che si voglia imparare qualcosa di nuovo sia che si desideri avviare un processo di apprendimento più strutturato o un vero e proprio cambiamento nella nostra vita, il primo passo è quello di dichiarare non so. L’alternativa è quella di presumere di conoscere determinati temi o esperienze, classificandoli precocemente come già noti e precluderci l’opportunità di imparare qualcosa di nuovo. Dichiarare di non sapere è il primo passo per aprirsi realmente all’apprendimento. Abbiamo bisogno di partire da una condizione di vulnerabilità e ammettere di non sapere è un atto di coraggiosa vulnerabilità.
Necessitiamo del coraggio di commettere degli errori ed assumere dei rischi, che spesso sono l’unico modo di imparare veramente. Come disse Elbert Hubbard, scrittore e filosofo statunitense vissuto a cavallo tra la fine dell’’800 e primi del’900, “Il più grande errore che si può fare nella vita è quello di avere sempre paura di farne uno”.
Quando si parla di vulnerabilità facilmente si evocano concetti come debolezza, delicatezza e fragilità. Ma, secondo me, vulnerabilità e fragilità possano essere rappresentazioni mentali sensibilmente diverse.
Il termine vulnerabilità contiene la possibilità di essere feriti, esporsi, quindi anche di lasciar entrare il nuovo, con il suo potenziale di pericolo. Etimologicamente vulnerabile deriva da “feribile”, si trova vulneràbile agg. [dal lat. vulnerabĭlis, der. di vulnerare «ferire»] .Dunque, vulnerabile è colui che può essere ferito metaforicamente è capace di lasciarsi scalfire nelle sue certezze. Le persone che hanno il coraggio di mostrarsi vulnerabili sanno dire “non so” e sanno chiedere aiuto, sono percepite come più umane e risulta più facile connettersi con loro. Hanno il coraggio di ammettere che possono commettere errori, con molta meno paura di chi vuole apparire impeccabile ad ogni costo e, quando inevitabilmente sbaglia, si sente perso o se la prende con gli altri.
La vulnerabilità è una competenza fondamentale nell’espressione delle abilità direttive. Nelle organizzazioni, il leader che possiede la giusta dose di vulnerabilità è più credibile e sa mettere in campo le risorse più utili, anche se appartengono ad altri membri del gruppo. Il leader che, invece, si è confinato maggiormente nel suo ego alla ricerca impossibile della perfezione è più accentratore e limita per questo le opportunità dell’organizzazione.
Siamo esseri fallibili che in molti casi trascorrono la loro esistenza, fingendo che non è così. Partire da questa consapevolezza, ci può dare molta forza, apertura e coraggio.
La “fragilità”, invece, viene spesso intesa come facilità di rompersi al primo urto.
Fragile è chi non ha imparato a fallire, chi, una volta caduto, ha mille difficoltà a rialzarsi, chi ha bisogno di nascondere i propri punti deboli. Insomma chi si prende troppo sul serio.
Se non si possiede una certa dose di vulnerabilità, possiamo pensare di trovare all’estremo opposto proprio la fragilità. In questo caso la fragilità si esprimerà con la rigidità, la negazione o la fatica a cogliere altri punti di vista, differenti dai propri.
Questo, in termini di apprendimento, significa avere delle opportunità piuttosto limitate e circoscritte di imparare realmente qualcosa di nuovo. Significa applicare rigidamente i propri schemi mentali, accogliere ciò che vi si accorda e rigettare ciò che va al di là.
Mi è capitato, recentemente, di leggere un articolo, nel quale Janelle Gale, vicepresidente delle risorse umane di Facebook parla di quali caratteristiche l’azienda cerca nei propri collaboratori, sin dal colloquio di selezione. In una intervista a Business Insider, la Gale afferma che vengono ricercate persone desiderose di apprendere, abituate a farlo velocemente, curiose di ampliare costantemente la propria conoscenza.
“Se al colloquio arriva qualcuno che è evidentemente il più preparato, il più qualificato nel suo settore, ma non è disposto a imparare, ecco che per noi scatta un campanello d’allarme” ha detto. “Noi abbiamo bisogno di persone che siano disposte ad assumere comportamenti nuovi.”
Come formatore mi è capitato spesso, con varie popolazioni di discenti adulti, di proporre alcuni esercizi-stimolo, la cui soluzione può essere trovata, soltanto abbandonando i consueti schemi di pensiero e utilizzandone di alternativi. Sono molto pochi coloro che mostrano questa capacità. La maggior parte delle volte, le persone impiegano moltissimo tempo nel risolvere il problema utilizzando il pensiero lineare. Rimangono intrappolati nei loro schemi e si affannano a vincere la sfida, qualche volta con più tensione da prestazione, che con reale voglia di mettersi in gioco.
Secondo il mio punto di vista, nel coaching, in particolare quello individuale, avviene qualcosa di differente rispetto alla formazione. Per la maggior parte delle persone diventa un po’ più facile far entrare in campo la propria vulnerabilità. Ecco perché a differenza di altre metodologie, questa si presta più facilmente ad avviare un processo di trasformazione.
Superati i primi momenti, magari di diffidenza, la persona spesso si apre, ammette le proprie difficoltà, si espone. Si mette, dunque, in una condizione di vulnerabilità, dalla quale risulta più favorevole il cambio di prospettiva. Cambiare punto di vista spesso si traduce in nuove opportunità di azione. Questa condizione richiede molto coraggio, la capacità di stare scomodi di fronte alla domanda e di mettersi in discussione.
Uscire dalla propria zona di comfort è un po’ come scendere nel campo di battaglia, dove l’unico scudo è l’utilizzo consapevole della propria vulnerabilità. Una volta scesi nel campo di battaglia si aprono ottime opportunità di fare pulizia di ciò che non serve più o è dannoso, come le convinzioni limitanti e trovare tutte le migliori alleanze, cioè le risorse che consentano al guerriero di vincere, ossia di raggiungere i propri obiettivi e i propri traguardi.
Quindi, possiamo ipotizzare che, se imparare sembra un processo così automatico o relativamente semplice, al quale siamo più o meno tutti abituati, in realtà può avere modalità e livelli molto differenti. Vi sono persone che possiedono molte nozioni ma sono poco disponibili ad incorporare nuove informazioni e conoscenze da quello che vivono e fanno. La nostra disponibilità a metterci in gioco definisce la possibilità di avviarci verso cambiamenti più funzionali a ciò che vogliamo essere o diventare.
Ad esempio, il non agire perché non si possiedono tutti i minimi dettagli è una forma di perfezionismo. E il perfezionismo è una forma di fragilità che ci porta spesso ad essere esigenti e mai completamente soddisfatti di ciò che facciamo. È una dimensione che ci costringe ad arroccarci nelle nostre posizioni e ad avere poca propensione alla sperimentazione, per paura di sbagliare.
In sostanza, per diventare capaci di imparare in maniera profonda, per crescere e per cambiare, abbiamo bisogno di accogliere conoscenze ed esperienze in modo aperto, con meraviglia e curiosità, esporci e allo stesso tempo lasciarci attraversare dal nuovo, riducendo al minimo i preconcetti.
AiFOS - Associazione Italiana Formatori ed Operatori della Sicurezza sul Lavoro
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