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Le riflessioni di Rita Somma, RSPP, sociologa del lavoro e consulente salute e sicurezza e Gianluca Giagni, ingegnere esperto in sicurezza e cantieristica, docente universitario, scrittore
Difficile trovare una risposta univoca e certa a questa domanda, anche perché gli ambienti confinati restano ancora interpretabili, così come abbiamo già avuto modo di discuterne nell’articolo dell’editoriale precedente; dunque, servirebbe una legge o una norma tecnica più chiara che costituisca un grimaldello interpretativo di senso comune per la loro definizione. Vi è in più un altro aspetto fondamentale, ossia la mancanza nell’intero panorama europeo di norme tecniche ufficiali di riferimento per sbrogliare i molteplici problemi applicativi per gestire il rischio di lavorare in tali ambienti. Non avere una bussola di riferimento, significa il più delle volte, doversi indirizzare in base alla propria esperienza e al proprio senso interpretativo di quello che un ambiente possa rappresentare, sia esso conosciuto o sia esso poco noto.
Sono proprio i luoghi di lavoro poco esplorati, perché ritenuti scarsamente frequentati, o quelli troppo familiari, dove le attività di intervento precedenti si sono sempre svolte senza problemi, a farci abbassare la guardia, aprendo la porta ad un possibile incidente. Basta una anomalia o un particolare non considerato, per esempio una guarnizione difettosa di una porta o la porosità delle pareti, per far cambiare rapidamente lo scenario di rischio. Ricordiamo sempre che un rischio non valutato spesso può tramutarsi in una emergenza, e quindi trasformarsi in brevissimo tempo in una trappola mortale, che in questi ambienti può tradursi facilmente in infortuni a “grappolo”, conseguenziali al tentativo postumo di salvare i propri colleghi di lavoro. Quando il pericolo è così elevato, la prevenzione diviene un fattore essenziale per evitare disgrazie e catastrofi di grave portata e deve portare a prevedere tutele prevenzionistiche specifiche. In Italia, il legislatore ha cercato di definire tali tutele attraverso il DPR 177/2011, costituito da soli 4 articoli, che è però ben lontano dal rappresentare una norma di sicurezza; esso si limita a fissare esclusivamente i requisiti prestazionali – in termini tecnico-professionali – delle imprese e degli addetti che dovranno eseguire attività in luoghi confinati. Anche il D. Lgs. 81/08, agli articoli 66 e 121, fornisce solo indicazioni generiche sulle misure da adottare. In assenza di un corpus normativo organico condiviso, gli attori principali della sicurezza, tra i quali il datore di lavoro e l’RSPP, si ritrovano ad avere come riferimento orientativo solo indicazioni operative emanate spontaneamente da organismi tecnici che, negli anni, hanno cercato di fornire un prezioso supporto pratico indicativo per operare in sicurezza in tali spazi, ma che rimangono suggerimenti disarticolati e disancorati non vincolanti. Questione non di poco conto! Ma senza perderci di animo, cerchiamo di definire un indirizzo condiviso, partendo dalla normativa esistente, per costruire l’impianto prevenzionistico e fornire una “cassetta degli attrezzi” che definisca il modus operandi e le misure di prevenzione e protezione da attuare in un ambiente confinato. Dovremo, in ogni modo, necessariamente limitarci a delineare scenari generali astratti dati come prima approssimazione di una realtà assai più complessa e articolata. La costruzione della prevenzione, infatti, può essere definita solo ad hoc, nell’ambito di situazioni immancabilmente connotate da specifici riferimenti spaziali e temporali, e non può essere definita aprioristicamente in una sorta di vuoto pneumatico, demandata a trailers ciclostilati prefabbricati. Ogni ambiente, infatti, presuppone un crogiolo di aspetti e di elementi diversi che devono essere considerati “dal di dentro”, ragionando sulla specificità, sulla conoscenza e sull’effettività delle attività da svolgere, prendendo visione delle condizioni strutturali e della tecnologia a disposizione.
Le informazioni necessarie sono molteplici per valutare un ambiente confinato, partendo dalle informazioni sulle attività lavorative da svolgere (tempistica, tipologia di lavoro, numero di persone coinvolte) e sulle attrezzature e materiali necessari per la lavorazione fino ad arrivare alle caratteristiche fisiche e geometriche dell’ambiente di lavoro (tipologia di ingresso e di spazio confinato, volume e spazi disponibili interni, posizionamento delle aperture). Immaginiamo che differenti combinazioni dei succitati aspetti possono e devono portarci a valutare in modo differente l’ambiente confinato.
Il vestito prevenzionistico insomma deve essere ineluttabilmente cucito addosso, in modo sartoriale, in un approccio che richiede una valutazione che si lasci contaminare dal posto, dal contesto e dall’organizzazione e consideri le peculiarità delle condizioni e delle variabili presenti. Richiamando la metafora teatrale del sociologo americano Goffman, non si deve entrare in scena con un copione prestampato, ma interpretare in base agli attori e alla storia da recitare, contaminarsi con il luogo (il palinsesto è tutto, compresi i lavoratori). La sicurezza in un ambiente confinato è come “un puzzle da costruire”, dove ogni singolo pezzo diventa essenziale per costruire l’insieme e, se si ha a disposizione l’immagine rappresentata nella scatola di tutti i pezzi del gioco, tutto diventa più semplice da comporre. Ogni tassello di sicurezza deve essere inserito nel posto giusto, altrimenti si crea un anello debole della catena che può portare all'incidente. Ovviamente, per fare questo, è necessario il supporto di un esperto in materia, che abbia maturato una pluriennale esperienza negli spazi confinati e sappia indirizzare nella costruzione della sicurezza per operare in ambienti con simili complessità e rischi. Non ci si può improvvisare, bisogna conoscere, aver studiato attentamente, ricercando la sicurezza reale come intreccio profondo tra dimensioni tecniche e tecnologiche, ambientali e sociali. È proprio questo ultimo aspetto, quello umano e comportamentale che, anche in questi casi, non può e non deve essere sottovalutato. La gestione di rischi, a maggior ragione in ambienti come quelli confinati, non può prescindere infatti da una diffusa cultura della sicurezza, che deve orientare l’attività dell’intera organizzazione e deve sviluppare un sistema prevenzionistico resiliente. Una cultura della sicurezza che non deve essere intesa come concetto astratto di cui riempirsi la bocca, ma deve diventare processo reale, costante e continuo di azioni che l’organizzazione mette in atto per mantenere sempre alta l’attenzione. Bisogna uscire dalla routine nella quale la sicurezza sembra caduta, ragionare in modo indipendente o, se si vuole, insubordinato verso i processi di appiattimento che si traduce in centinaia di procedure stereotipate. Risulta pertanto fondamentale il coinvolgimento dei lavoratori interessanti (o loro rappresentanti) anche nella fase di valutazione dei rischi e di definizione delle misure di prevenzione e protezione, che consente di aumentare la consapevolezza per poter gestire l’inatteso, prevenire i rischi e anticipare i possibili incidenti. Una sicurezza da costruire insieme a tutti gli stakeholders e le cui parole chiave sono quindi: competenza, esperienza, specificità. Un modello di prevenzione che non può affidarsi, richiamando per analogia le narrazioni mitologiche, alla mitica deità protettrice di fantomatici spiriti protettori alla cui benevolenza bisognava dedicare sacrifici (umani, in questo caso) o, più in generale, al fato, che troppi inaccettabili morti bianche lasciano ancora oggi sul campo. Mentre si discute su quale ambiente sia da considerarsi “confinato”, l’attenzione rimane ancora troppo bassa e, nel frattempo, altri due lavoratori hanno perso la vita a Pavia: investiti da vapori di ammoniaca dopo la rottura di una condotta mentre svuotavano una vasca di liquami.
Come procedere quindi per garantire l'assenza di pericolo per la vita e l'integrità fisica dei lavoratori che operano in ambienti confinati? Difficile rispondere in modo categorico, anche considerando le difficoltà di definire un ambiente “confinato”.
Il nucleo fondante è la valutazione dei rischi, obbligo non delegabile del datore di lavoro, che deve effettuare una attenta e oculata analisi delle fonti di rischio, non spaventandosi nel definire un ambiente confinato o sospetto di inquinamento. Non ci si deve mai far intimidire dalle conseguenze, anzi si deve valutare pensando “…casomai saranno piccoli improbabilissimi elementi che possono rendere questo ambiente confinato, ma possono essere letali se sommati alle altre fonti di rischio legate alla tipologia di attività lavorativa svolta…”.
Gli specifici rischi di tali ambienti presentano alcune caratteristiche difficoltà che ovviamente, se non considerate, portano ai danni peggiori.
L’evoluzione del rischio: in un ambiente ordinario le conseguenze di un rischio avvengono in tempi ben definiti, in un ambiente confinato l’evoluzione di ogni rischio è velocissima e tutto può avvenire in pochissimi secondi.
La comunicazione: è difficile avere la certezza di essere informato su quanto sta accadendo e si deve sempre pensare e/o almeno immaginare che in caso di pericolo in un ambiente confinato non si ha il tempo per avvisare.
Il soccorso: l’aiuto a chi si trova in situazioni di pericolo imminente o di grave necessità è sempre un aspetto critico, per cui deve essere sempre programmato e ben definito. Qui ancora di più perché il personale che dovrebbe prestare soccorso non sa bene di fronte a cosa si trova e alla modalità di accesso/recesso all’ambiente confinato.
Numero di persone coinvolte: il numero di persone che potrebbe essere coinvolto all’interno dell’ambiente confinato è un elemento determinante che dovrebbe essere preso in considerazione per definire sia il numero di persone esterne che gli strumenti e mezzi necessari per prestare il soccorso.
Ma pensiamo anche al motivo per il quale questi aspetti sono spesso trascurati. Innanzitutto, capita sempre più spesso che le attività che si svolgono in ambienti confinati presenti in luoghi di lavoro, siano di tipo manutentivo. Tali ambienti non sono frequentati solitamente da nessuno e dunque non si valutano all’interno del DVR. Si pensa, difatti, che l’eventuale intervento manutentivo possa riguardare una ditta esterna e dunque non sia soggetto ad una valutazione dei rischi. Proprio qui, però, il D.P.R. 177/2011 precisa che sia il datore di lavoro committente ad informare i lavoratori che interverranno sui rischi presenti in quell’ambiente di lavoro. Concludendo, non si può escludere nulla dalla valutazione dei rischi!
A valle di una corretta valutazione dei rischi si deve fare prevenzione partendo dalla definizione di procedure specifiche per entrare e lavorare nell’ambiente confinato e per uscirne sia in condizioni normali che di emergenza.
Procedure per entrare in ambiente confinato:
Procedure di lavoro in ambiente confinato:
L’elenco proposto è indicativo e non deve intendersi come esaustivo. In base ai rischi presenti potrebbe essere necessario adottare altre misure per garantire la sicurezza dei lavoratori considerando anche il melting pot eterogeneo di lavoratori, spesso diversificati tra loro per genere, lingua, cultura, età.
La formazione, se efficace, costituisce la chiave di volta per la tenuta dell’impianto prevenzionistico. È fondamentale che i lavoratori impiegati, sia interni che a presidio esterno all’ambiente confinato, conoscano perfettamente i pericoli presenti e le procedure di lavoro/di emergenza e posseggano competenze che non si possono acquisire con il conseguimento di un attestato di poche ore di formazione, ma che devono essere la traduzione del trasferimento di background professionale peculiare e specialistico all’altezza del compito da eseguire e delle attrezzature e dei dispositivi in uso. L’attività formativa e di addestramento così deve essere in grado di influenzare tutti i lavoratori presenti, sia quelli con poca conoscenza degli ambienti confinati che quelli con familiarità ed esperienza, per il mantenimento di standard di sicurezza elevati in situazioni di pericolo a rapida evoluzione, così come previsto nel D.P.R. 177/2011. Formazione quindi che deve necessariamente prevedere una fase di corretto addestramento, che consenta di testare le procedure di lavoro/di emergenza riproducendo scenari di lavoro e di salvataggio realistici, anche replicando fedelmente tutte le condizioni ambientali nelle quali i lavoratori devono operare. Pertanto, una formazione seria in questi ambiti, fa sì che: la visibilità compromessa, lo sfarfallio delle lanterne, il disagio legato alla temperatura, la mancanza di ventilazione sufficiente, la presenza di umidità sfavorevole, l’utilizzo di abbigliamento specifico, siano tutti aspetti deja vu, presenti e già provati. L’esposizione a queste condizioni avverse fa la differenza e, se il lavoratore non è idoneamente preparato, può indurre la comparsa di stress fisico e psicologico e conseguentemente ridurre la soglia dell’attenzione, esponendo ad un maggiore rischio di errore e di infortunio. Effettuare, ad esempio, prove di addestramento con normale abbigliamento di lavoro o indossando tute protettive impermeabili cambia non di poco lo scenario di rischio microclimatico[1], che potrebbe così non corrispondere alle condizioni effettive di lavoro. Concludendo, per ottenere una formazione/addestramento efficace si devono prevedere scenari il più possibile vicini alle condizioni reali dove si lavorerà, superando il gap tra l’intenzione e la realtà concreta ed essere orientati ad incrementare efficacemente la capacità di consapevolezza e competenze. Si punterà così a trasferire e condividere informazioni di sicurezza preziose ed a sviluppare sempre più quella che il padre della sociologia, Max Weber, chiama razionalità incrementale o strategica, che prepari alla possibilità di aggiustamenti progressivi successivi ed a vedere meglio i termini del problema. Una formazione che può essere pensata anche utilizzando strumenti nuovi e creativi, che potrebbero prevedere tecniche esperienziali e, perché no, di gamification. Purtroppo, invece, anche nel caso degli obblighi formativi, ci troviamo di fronte ad un vuoto legislativo, o meglio ad una mancante chiarezza sulle reali competenze del formatore e sui contenuti dei programmi formativi (parte teoria e parte pratica). Si prospetta quindi la necessità di un intervento del legislatore per disciplinare la materia, per proporre soluzioni di solido fondamento giuridico e grande respiro etico che consentano di passare da una sicurezza formale (quando va bene!) ad una sicurezza sostanziale. In attesa di questo intervento ci siamo anche noi per una riflessione comune che faccia eco alle reali necessità tecnico-legislative.
[1] in caso di utilizzo di abbigliamento protettivo il microclima è quello che si crea tra lo strato della pelle e quello del tessuto. In un ambiente ristretto, il vapore emesso con la sudorazione, che è il meccanismo più efficace per la dispersione del calore, potrebbe creare condizioni di stress termico anche ad una temperatura di 18°, con conseguenze anche gravi come per esempio i collassi
AiFOS - Associazione Italiana Formatori ed Operatori della Sicurezza sul Lavoro
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