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Il Quaderno della Sicurezza n° 4/2024, contenente il Rapporto AiFOS, è on-line. L'editoriale di Lorenzo Fantini
Per affrontare il tema dell’efficacia della formazione e le indicazioni raccolte dall’indagine che AiFOS ha realizzato, desidero partire dall’analisi di un concetto che tutti noi, impegnati quotidianamente nel mondo della salute e sicurezza sul lavoro, abbiamo ben presente, ma che, se evocato, viviamo con fastidio: la cultura della sicurezza.
Si tratta di una nozione che è diventata una sorta di mantra per ogni relatore o dibattito che parli della materia, fin troppo citata. Se fossi ad un convegno e chiedessi chi di voi ne ha sentito parlare, sarei certo di osservare la molteplicità della sala con la mano alzata e certamente percepirei come quasi tutti i presenti non ne possano più di sentire ripetere un concetto così usato da apparire vuoto davanti una ogni tragedia che viviamo, anche se racconta gravi incidenti, quando non addirittura di morti sul lavoro.
Questo sentire generalizzato ci appare oggi quasi “normale”: se da un lato ci appigliamo alla necessità di una cultura capace di plasmare tutte le persone e renderne i comportamenti più virtuosi (altro concetto ormai ridondante quello della virtuosità…), ogni volta che ne sentiamo parlare percepiamo la vacuità stessa delle parole. Me ne accorgo ad ogni meeting, in ogni sala, dove al sentire citare tale nozione, ritrovo gente con gli occhi al cielo, distratta o visibilmente stanca di ascoltare il richiamo ad un concetto che ci appare giusto ma lontanissimo dall’essere “nostro”.
Ciò nonostante, non dovrebbe essere così, perché chiunque operi (con qualunque ruolo) in materia di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali sa benissimo che la dimensione non tecnica ma comportamentale della salute e sicurezza sul lavoro - legata alla conoscenza di temi quali la prevenzione, la protezione, il pericolo, il rischio, il danno e alla consapevolezza dell’esistenza e dell’importanza di regole che sono, innanzitutto, condivise e interiorizzate - sia essenziale per l’effettività delle tutele al lavoro. Sarebbe bello, quindi, poter dire che la parola “cultura” dispone quello che in filosofia del diritto si definisce “valore performativo”, cioè, sia in grado di modificare – anche solo in base alla potenza che le è propria (semplicemente in quanto ascoltata) – la realtà, portando le persone e le organizzazioni di lavoro ad adeguarsi ai valori che essa evoca.
Cultura è una parola che – in base alla descrizione del dizionario Treccani – esprime “In etnologia, sociologia e antropologia culturale, l’insieme dei valori, simboli, concezioni, credenze, modelli di comportamento, e anche delle attività materiali, che caratterizzano il modo di vita di un gruppo sociale”.
Già questa idea è di per sé prodigiosa, perché parla di un modello di comportamento che caratterizza lo stile di vita, ossia qualcosa che permea (o dovrebbe farlo) le persone stesse e i loro comportamenti fin nel profondo. Non basta però, in quanto lo stesso dizionario approfondisce il concetto segnalando come il termine stesso sia “passato a indicare nella letteratura, nella pubblicistica e nella comunicazione di questi ultimi anni, l’idealizzazione, e nello stesso tempo la scelta consapevole, l’adozione pratica di un sistema di vita, di un costume, di un comportamento, o, anche, l’attribuzione di un particolare valore a determinate concezioni o realtà, l’acquisizione di una sensibilità e coscienza collettiva di fronte a problemi umani e sociali che non possono essere ignorati o trascurati”.
Non so se un semplice editoriale come quello che state leggendo sia idoneo a trasmettere la potenza di un messaggio simile, che invece abbiamo finito per percepire come una nozione buttata lì che, come accennato, ci appare ridondante quando citata e che, invece, dovremmo abbracciare e accogliere.
In un suo discorso il giudice Paolo Borsellino parlò della lotta alla mafia indicando come: “La lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità.” Spero non appaia esagerato paragonare l’impegno e la dedizione che auspicava Borsellino contro la mafia agli sforzi che devono essere incessantemente fatti per contrastare il fenomeno degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali. Con questo non voglio arrivare a concludere che i drammi derivanti dalla mancata sicurezza al lavoro siano solo il frutto di una sorta di “assuefazione” della società civile (tema sul quale, tuttavia, molto si potrebbe dire…), quanto piuttosto sottolineare come ritengo innegabile che siano proprio il contesto sociale e l’applicazione di determinati comportamenti a dover fungere da elementi fondanti per la buona riuscita delle politiche – aziendali e pubbliche – intraprese in materia di prevenzione.
Perdonate la lunghezza del preambolo, ma per parlare dell’efficacia della formazione bisogna, a mio avviso, necessariamente partire da queste basi. Lo dicono i dati, ancora una volta magistralmente raccolti dall’Associazione che ogni anno si propone di ascoltare gli addetti ai lavori, indagare il loro stato d’animo e valutare le principali criticità di un lavoro che, anno dopo anno, invece di migliorarsi molto spesso sembra logorare e far perdere di mordente in primo luogo i lavoratori.
Oltre ai dati, lo ribadiscono anche gli studi più aggiornati, messi in bella mostra nei contributi riportati in questo Quaderno, che richiamano in particolare il valore e l'impatto dei quattro livelli di valutazione di Kirkpatrick, ricordando quanto sia fondamentale porre in essere il terzo e il quarto livello, al fine di una corretta valutazione delle azioni intraprese e per riuscire a vederne un impatto concreto sulla vita aziendale e delle persone.
“Cultura significa anzitutto creare una coscienza civile, fare in modo che chi studia sia consapevole della dignità. L’uomo di cultura deve reagire a tutto ciò che è offesa alla sua dignità, alla sua coscienza. Altrimenti la cultura non serve a nulla”. A parlare era Sandro Pertini, intervistato da Oriana Fallaci (“L’Europeo”, 27 dicembre 1973): ebbene, senza questo sforzo collettivo che nasce in primo luogo da ognuno di noi come parte di una comunità, la valutazione teorica dell’impatto della formazione sarà priva di fondamento e continueremo a vivere il concetto di “cultura della sicurezza” come qualcosa di ridondante e noioso.
Invito me stesso e Vi invito a ricordarlo al prossimo incontro, quando qualcuno menzionerà la necessità di una “cultura della sicurezza”, perché questa evocazione si possa legare allo sforzo di vedere al di là, di rendere questo concetto qualcosa che appartenga a noi stessi - e, per osmosi, alle comunità (sociali e di lavoro) di cui facciamo parte.
Lorenzo Fantini
Direttore dei Quaderni della sicurezza di AiFOS, avvocato giuslavorista, già dirigente divisioni salute e sicurezza del Ministero del lavoro e delle politiche sociali
AiFOS - Associazione Italiana Formatori ed Operatori della Sicurezza sul Lavoro
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