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Il Quaderno della Sicurezza n°2 del 2023 è on-line. L'editoriale di Lorenzo Fantini
Giorno dopo giorno, in modo sempre più particolareggiato, ci troviamo a fare i conti con gli effetti derivanti dalla pandemia da Covid 19.
Uno tra questi è senza dubbio la necessità di ripensare il luogo di lavoro, inteso come quel contesto in cui ogni persona dovrebbe svolgere senza alcun problema la propria attività lavorativa, facendo riferimento sia al design dello spazio di lavoro che alla componente sociale del contesto lavorativo.
Tale esigenza diventa sempre più sentita e delinea contorni più specifici e dettagliati: fino alla fine del secolo scorso, infatti, la configurazione degli spazi era pensata solamente in funzione delle esigenze aziendali e della necessità di controllo e di accentramento del potere da parte dei vertici, essendo tale configurazione “mirata” alla vigilanza della forza lavoro.
Ciò significa che, se avessimo dovuto scrivere sull’argomento anche solo qualche anno fa, avremmo potuto far riferimento alla sola branca dell’architettura: di fatto, citando liberamente un concetto espresso dall’architetto Ernesto Nathan Rogers “L’architettura è la sublimazione delle necessità della vita: è l’arte che definisce, nello spazio, il tempo”, per evidenziare proprio che erano i bisogni aziendali, di volta in volta dominanti, ad indirizzare ciò che veniva progettato e realizzato.
Oggi invece emerge tutta l’inadeguatezza di certi percorsi “orchestrati dall’alto” e si tende a valorizzare l’ambiente mettendo al centro la persona, offrendo un ventaglio di opportunità caratterizzate dalle diverse necessità che il contesto lavorativo intende soddisfare.
Questo fenomeno ha generato diverse soluzioni, tutte brillanti, dove l’individuo diventa colui che può stabilire le caratteristiche del suo ambiente e ricerca l’armonia con le attività svolte. Per contro, tuttavia, in queste diverse opzioni emergono varie criticità, prima tra tutte la difficoltà di “convivenza” tra l’isolamento rispetto alla coesione con i colleghi entro nuovi spazi condivisi.
Ecco, allora, che tutti i contributi proposti in questo Quaderno evidenziano proprio le tante angolazioni da cui viene attualmente trattato l’argomento: mai prima di questo numero sono stati così poliedrici i riferimenti - dall’architettura degli interni alla biofilia della progettazione, dalla necessità di valutazione del rischio sismico, passando per la salubrità degli ambienti e le patologie correlate alla “Sindrome dell’edificio malato” - proprio perché in tale ricerca sono coinvolte tutte le branche delle scienze. Per questo tutti gli esperti hanno indicato i molteplici ambiti da valorizzare e li hanno sviluppati dai loro diversi punti di vista.
Risulta indispensabile, quindi, riflettere sulle logiche di progettazione, ripensando alla sinergia da generare tra chi detiene l’esigenza da portare a termine – avendo una conoscenza approfondita del DNA dell’organizzazione stessa – e chi traduce questa idea nella specifica tecnica. Due linguaggi solitamente molto diversi, che hanno bisogno di procedere verso una direzione unica, che coniughi la prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali con la progettazione, realizzazione e gestione di spazi di lavoro utili e funzionali alle persone.
Il comune denominatore che si evidenzia in ogni punto di vista è la necessità di una nuova concezione degli spazi fisici aziendali: ad esempio, la configurazione di un ufficio integrato, dove chi lavora può scegliere uno specifico layout in base alla tipologia di attività e alle preferenze personali.
Questo perché l’ambiente di lavoro è sempre più un fattore fondamentale nella prestazione lavorativa individuale e di gruppo, capace di influenzare la motivazione intrinseca dei lavoratori, che a sua volta, è determinante nella qualità della performance e la creatività.
Dunque, il ripensamento del layout fisico in ottica smart è da considerarsi innovativo (e vincente) se riesce a soddisfare appieno i cosiddetti “quattro fattori C”: collaborazione, concentrazione, comunicazione e contemplazione[1].
Il punto focale resta, in ogni caso, il concetto di massima sicurezza tecnologicamente possibile (2087 c.c.) declinato in modo "puntuale" sugli ambienti di lavoro "tradizionali" (manifatture, uffici, ecc.), ai quali si applica facilmente la vigente disciplina legale a quelli, tutti da valutare, "atipici". È questo il contesto che va considerato con attenzione da tutti coloro che si occupano di prevenzione in azienda o per le aziende, tenendo in dovuta considerazione la necessità di garantire livelli di tutela adeguati ed effettivi anche negli ambienti di lavoro nei quali si svolge l’attività in smart working o, ancora, in quelli ben più "sfuggenti", in cui si muovono i raider. Non a caso, uno dei tre obiettivi della “Strategia europea 2021-2027” di salute e sicurezza sul lavoro è la necessità per gli Stati membri di “gestire la tutela dei lavori (e, quindi, dei luoghi di lavoro) atipici”.
Questo è, in primo luogo, il tracciato su cui procedere per rafforzare anche negli spazi di lavoro la tutela della salute e sicurezza delle persone che in quei luoghi operano, perché come diceva l’architetto Oscar Niemeyer “L’architettura è un pretesto: importante è la vita, importante è l’uomo”.
Lorenzo Fantini[2]
[1] Cfr. Myerson, J., Bichard, J.dA., Erlich, A., (2010). New Demographics New Workspace: Office Design for the Changing Workforce, McGraw-Hill
[2] Direttore dei Quaderni della sicurezza di AiFOS, avvocato giuslavorista, già dirigente divisioni salute e sicurezza del Ministero del lavoro e delle politiche sociali
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